giovedì 27 febbraio 2014

HERZRASEN

Da oramai una settimana di notte mi sveglio di soprassalto a causa di attacchi di tachicardia (Herzrasen in tedesco). Il mio cuore, la cui frequenza normale è sotto le 50 pulsazioni al minuto, va oltre le 100 e questa volta non a causa dell'allagamento come nella vecchia casa più di un anno fa. Sarebbe la seconda volta in meno di un anno e questo non mi garba. Sono andato dal mio medico che mi ha fatto fare un EKG normale. Si notava appena un leggero fremito nella funzione diastolica. Ho dovuto rimettere l'apparecchio per il controllo durante 24 ore: ci sono improvvise accelerazioni causate da cosa...non si sa. Devo tornare dal cardiologo, che mi sottoporrà ad un EKG sotto sforzo, poi di nuovo a un controllo di 24 ore e in caso di necessità mi rispedirà nella clinica cardiologica dove sono già stato ricoverato a maggio dello scorso anno. Non voglio tornare nella stanza 127. Non voglio parlare col professor Goska. Non voglio sottopormi a tutte quelle analisi. Non voglio rifare quel catetere. Ma che cavolozzo fritto mi sta combinando il mio corazon?

Ecco Euridice: sono 12 righe e non ho proprio voglia di scriverne ancora.

mercoledì 26 febbraio 2014

SOLE GELIDO



C'è luce nei tuoi occhi,
quella che adesso manca qui;

c'è musica nella tua voce,
quella che ormai non ascolto più;

c'è freddo nel tuo silenzio
e il sole è gelido sul mio balcone.

lunedì 24 febbraio 2014

IO MI PERDONO



Sostando a lungo
sotto una crosta di sabbia,

prosciugato da un fantasma,
ogni notte
ho respirato nebbia.

Io mi perdono






venerdì 21 febbraio 2014

SORREGGIMI



Schiuma di luce all'orizzonte.

Rientrati tutti i gabbiani, si spegne
la notte in mare.

In questa ripida discesa
scivolosa
sorreggimi padre.



giovedì 20 febbraio 2014

ER CUPPOLONE

I romani de Roma chiamano così la cupola di San Pietro, la più grande al mondo si dice, di certo la più famosa e la più ammirata. Michelangelo riuscì a superare in bravura e in ardire Brunelleschi, che gli aveva lanciato la sfida edificando la cupola della Cattedrale di Firenze e nessuno dopo osò il confronto col Buonarroti. Fino ai giorni nostri quando è stato costruito un cuppolone almeno quattro volte più grande, una cupola cioè dove sono contenute altre quattro grandi come er cuppolone de San Pietro.
Non ha niente a che vedere con quella palermitana, demolita da Falcone e Borsellino che, rimettendoci la vita, hanno smantellato la cupola di Totò Reina "o curto". Questa è ben più solida e nessuno si azzarda ad intaccarne le fondamenta.
Ho riflettuto a lungo prima di cimentarmi con un tema del politichese, dove sono un nanerottolo, un incallito perdente,uno che non capisce niente, uno inesorabilmente perso come argutamente ha sostenuto Silvia commentando un post che Zio Scriba aveva dedicato a me.
Ma quello che sta succedendo a sud delle Alpi è cosa talmente grave e misteriosa che tutti, operai e ingegneri, maestri e alunni, medici e pazienti, cretini e intelligenti hanno il dovere di intervenire e dire la propria, anche i poeti, anche gli artisti, anzi soprattutto quelli. Perché la parola politica deriva da due lemmi dell'antica lingua di Omero, il sostantivo pòlis e il verbo tiunkàno che insieme significano adoperarsi per la città,cioè per la collettività, e quindi tutti noi dovremmo partecipare e non guardare da un'altra parte e pensare solo a riempirci la pancia.
Avevo immaginato di intitolare il pezzo "la congiura dei Pazzi", una cosa prettamente fiorentina con tradimento e tentato assassinio del capo, ma sarebbe stato troppo facile equivocare e cadere nel pecoreccio.
Rimaniamo pertanto fedeli ar cuppolone, a questa enorme cupola a quattro.
"E chi so sti quattro?" mi chiede il mio popolo.
Innanzi tutto le varie Mafie, e cioè quella tipica siciliana, la Ndrangheda, la Camorra e la Sacra Corona. Non hanno perso colpi, anzi si sono rinforzate meglio organizzate e nei casini si muovono sempre più tempestive e precise di tutti.
Poi la Massoneria, che zitta zitta si è ormai infiltrata nella linfa dello Stato e ne tiene per buona parte le fila, soprattutto nelle alte sfere delle Forze Armate.
Terzo il Vaticano. Basta rivedere e rileggere con calma gli avvenimenti degli ultimi anni. Dagli scandali dello IOR, alla spalmatura di cemento sulla pedofilia di cardinali vescovi e preti fatta dal Papa polacco, alle dimissioni forzate del Papa tedesco, alla difficoltà di Francesco di aver ragione della Curia, riottosa e ribelle.
Infine l'ultimo quarto der cuppolone: la politica. E qui ha inciampato il somaro che aveva un basto carico di zavorra pesantissima.
Dopo due governi del Presidente ci si sarebbe attesa una nuova legge elettorale e nuove elezioni per eleggere democraticamente -a furor di popolo- il capo dell'esecutivo e l'esecutivo stesso. Invece è uscito fuori il più squallido papocchio all'italiana, che nessuno, nemmeno i malpensanti irriducibili come me, avrebbero potuto immaginare. 
L'ultimo arrivato, troppo giovane, troppo piacione, troppo facile di linguaggio, troppo imbonitore da villaggio, troppo poco eletto dal popolo sovrano, troppo poco deputato, troppo qui e troppo là, con una congiura di palazzo, che puzza di Prima Repubblica e della DC di Fanfani, Forlani, Andreotti e De Mita, elimina il proprio primo ministro e si sostituisce a lui. E il nostro bravo Presidente, che era sicuramente d'accordo, avalla lo scempio, tanto sta arrivando Sanremo 2014 e si sa che gli italiani hanno cose ben più urgenti da seguire.
Insomma in questa nostra bistrattata e strafottuta Patria, dopo che un istrione nano ingrifato come un porcospino in amore ha dominato per 20 anni; dopo che un pagliaccio di bassa lega aggrega intorno al suo turpiloquio il 25% dell'elettorato, adesso avrà l'onore di avere un venditore porta a porta di casseruole usate a scombinare tutti i giuochi, a tirare i fili di altre marionette, che -dice- si inventerà lui giorno dopo giorno per allestire il più grande spettacolo pirotecnico nella storia della Repubblica.
Ma chi gli dà credito, chi gli crede?
Come si può credere a un uomo che finora ha detto solo macroscopiche bugie; che ha dichiarato ai quattro venti di non volere la poltrona di Letta; che ha urlato in TV "Mai a Palazzo Chigi senza elezioni"; che dopo aver parlato di nuova legge elettorale subito e poi elezioni il prossimo anno ora ciancia di governo di legislatura fino alla naturale scadenza del 2018, visto che adesso su quella poltronissima va a piazzarci le sue chiappe; che fa uso del populismo più becero tipo riunioni della direzione del PD di prima mattina alle ore 7, come se la gente non sapesse che fino alle 9 c'erano il cappuccino, i cornetti e la lettura dei quotidiani sportivi; che pensa di capovolgere la politica del Paese usando la stessa maggioranza che aveva il predecessore, che lui stesso accusa di non aver concluso niente; come credere a un uomo simile? Si può credere a chi strombazzava di voler rottamare e poi ha tolto dai rottami Berlusca ricollocandolo al centro della scena politica?
Una domanda mi incalza: chi c'è dietro questa straordinaria scalata di un semplice sindaco? Quali poteri lo sorreggono e lo spingono? Chi lo sponsorizza così solidamente?
Siamo maggiorenni, vaccinati e non crediamo ai miracoli, né a salite impetuose avvenute in modo onesto -non in questa nostra Italia per carità- in virtù di capacità più o meno nascoste, e qui oso dire troppo nascoste.
E poi qual'è il suo piano? Quale la sua strategia? 
Mi permettete di azzardare un pronostico? Grazie.
Farà fuori Alfano e il NCD alla prima occasione e riciclerà Forza Italia.
Ma non vi preoccupate: lo sanno tutti che io di politica non capisco una mazza.



























martedì 18 febbraio 2014

CUORE GRANDE



Cuore grande
come un campo di calcio,
fiume che scivola senza fine,
dentro si abbeverano canneti.

Pascolo di whats app
di gruppo;
vibra appena toccato
corda di strumento antico.

Attende richiami notturni.

Assorbe sofferenze,
restituisce gioie,
mai stanco.



(18 febbraio, notte.)


venerdì 14 febbraio 2014

COSA RIMANE DI UN PADRE



Come un brivido lungo la schiena,
un lungo respiro,
più nulla.

Dura così poco morire.

Qualcuno ti chiama:
sali una scala di corsa
è ancora calda la fronte, sudata.

Conservi quella stilla di sudore
nel palmo della mano
come una reliquia:

evapora col pulsare
di una tua vena
e di lui non ti rimane più niente.



(14 febbraio - Omaggio per SF)


giovedì 13 febbraio 2014

FLUG 9624 CIA KARLSRUHE (BADEN BADEN) - ROM (CIAMPINO) DEL 9 FEB 2014 VOLO 9623 FKB ROMA (CIAMPINO) - KARLSRUHE (BADEN BADEN) DEL 12 FEB 2014

Mia figlia Monica e i miei due nipoti da Roma avevano l'aereo di ritorno domenica 9 febbraio alle 14,55. Non si poteva fare la grande mangiata il giorno del mio compleanno. Allora abbiamo ripiegato, si fa per dire, sulla cena di sabato 8 in un eccellente ristorante greco a Kandel. Dai greci si stramagna, ci si ingozza se si vuole. Basta accettare le portate e infilare la forchetta sui cibi e poi portarla alla bocca. E alla fine non mi è costata una cifra, tuttaltro.
Tornati a casa mia abbiamo tutti aspettato non la mezzanotte, ma l'una e dieci minuti esatti, perché quella è l'ora in cui sono arrivato io su questo pianeta ottanta anni fa.
Consentitemi di fare un'amara considerazione. Il destino è beffardo e a volte vigliacco: mentre io insieme ad un branco di gaudenti stappavo il mio champagne, dono di Kim e Cristina, un Dom Perignon d'annata, probabilmente alla stessa ora alcune centinaia di chilometri oltre le Alpi svizzere rendeva l'anima a Dio una persona cara, un mio quasi coetaneo, lasciando un grande vuoto intorno a sé. L'ho chiamato destino, ma purtroppo questo è il senso della vita.
Sbevazzato il Dom Perignon sono arrivati i regali, sontuosi stavolta. Per ultima una busta A4 da parte di Cristina con uno di questi cartoni grandi con fiori e all'interno scritta su entrambe le parti, a sinistra una poesia in tedesco molto bella, piena di affetto e a destra in italiano. Tutti aspettavano che io leggessi e io invece perdevo tempo, finché Cristina non si è incavolata.
"Leggi, nonno, sta cavola di lettera".
Leggo e c'è scritto che quello era il mio regalo, cioè un volo Karlsruhe-Roma e ritorno, in modo che io potessi stare là il giorno del mio ottantesimo. 
Carinissimo!
Il problema era che io volevo portare con me Anna Maria, ma lei aveva rifiutato già ai figli e ai nipoti. Mi sono agitato, mi sono incavolato e infine mi sono incazzato di brutto, ma non si schiodava. C'è voluto l'intervento di mia nipote Barbara, che le ha ricordato che una volta Anna Maria le aveva promesso che il primo volo lo avrebbero fatto insieme (non ne sapevo niente); poi è intervenuta mia figlia Monica ricordandole che anche a lei aveva fatto una volta la stessa promessa (e nemmeno di questo naturalmente sapevo niente). Così si è convinta.
In mezzora ha preparato -leggi HO preparato- il mio troller con tutta la nostra roba, è salita sull'auto del primo a disposizione e siamo arrivati al terminal di gran carriera.
Temevamo tutti che chissà come avrebbe reagito sull'aereo, invece era calmissima, circondata dal parentame nei posti prioritari là davanti a tutti, per via che Mauro ha gambe lunghissime e cerca spazio. E comunque c'erano posti da regalare, ma in aereo adesso devi stare al tuo posto durante decollo e atterraggio, poi puoi andare a deporre le tue chiappe dove ti pare.
Volo tranquillo al di sopra delle nuvole con qualche turbolenza sulle Alpi, come sempre.
A Roma il gran casino cui non sono più abituato. Penso che mi occorrerebbero un paio di giorni non di più per rientrare in sintonia con questi scalmanati, basta fare il contrario esatto di quello che faccio quassù, cioè basta dimenticare tutte le regole e guidare la cavalla selvaggia del West in mezzo ad altre selvagge come la tua. Dopo un po' ci si adatta. In fin dei conti da questo traffico provengo.
Monica è partita subito col treno e noi abbiamo impiegato in macchina dalla Stazione Termini fino ad Ostia Mare il tempo che il suo treno arrivava a Bologna.
Abbiamo cenato in un ristorantino carino -mangiando io un rigatone all'amatriciana da urlo, ma niente carciofi alla giudia perché erano finiti, cavolozzo fritto!- poi ce ne siamo andati a letto, sperando nel domani, perché i nostri telefonini promettevano bel tempo.
Invece niente. Pioggia di quella buona e dispettosa, per cui solo il tempo di fare una colazione frettolosa a base di cornetti con la crema e accontentiamoci tirando giù moccoli. Verso le undici e mezza si parte per Civitavecchia, dove certamente farà bel tempo. Si schioppa di caldo, questo sì, ma piove come Dio la manda così tutto si riduce ad una visita ai due cimiteri per salutare chi mi stava aspettando da un sacco di tempo, poi di corsa a casa di mia cognata, la mamma di Barbara, che ha cucinato per noi. Ottimamente come sempre. Di lì a casa dell'altra mia nipote che non vedevamo da tre anni e poi di sera si rientra in mezzo agli spruzzi. Non siamo potuti nemmeno scendere per il lungo mare nuovo che va dal Forte Michelangelo a Borgo Odescalchi, cazzarola, dove io ho consumato suole di scarpe nuove per anni cercando pollastrelle ed evitando le galline loro madri che non mi vedevano di buon occhio e mi avrebbero beccato via il cervello se mi pigliavano.
Ma domani, martedì, ci rifaremo perché il tempo reggerà di sicuro.
Mai dire mai. Il tempo è ancora più schifoso di ieri e tutto si riduce a grandi pappate: colazione nella pasticceria siciliana con cannoli siciliani con la ricotta e i canditi (mamma mia, non li mangiavo da una vita); poi si va a pranzo in un localino dove fanno tutte fritture di pesce e lì il pesce è freschissimo, mica come da noi. Seppiette, gamberi, un polpetto e n'antra bestia che non ho capito ma che era bbona assai. Bevuto un bicchiere dei castelli bianco ambrato -bbooono da moricce- poi si ritorna sotto l'acqua e si rivà a prendere la macchina per arrivare a casa. Una breve sosta, poi coi mezzi pubblici e cioè la metro zozza de Roma, dentro e fuori sudicia come mai in tre tappe: prima tappa all'aria libera Ostia Nord-EUR La Magliana; seconda tappa linea B La Magliana- Termini; ultima tappa 25 metri sotto terra (Anna Maria non lo sa e non glielo diciamo) linea A Termini-San Giovanni Via della Magna Grecia. Di lì a fette
fino a via Gallia e poi un'altra che non ricordo dove ha il suo laboratorio lo schiavo, cioè Enrico il marito di Barbara, odontotecnico raffinato, che per via delle tasse lavora oramai da solo essendo stato costretto a licenziare tutti per sopravvivere, ma si deve spanzare di fatica dalle sei della mattina (sveglia alle cinque e via un quarto d'ora dopo) per ritornare a casa alle 22, ogni giorno. Se questa è vita.
Da lì si va in macchina -guida Enrico- fino a Campagnano Romano sulla Cassia due, attraversando mezza Roma. Lì Cristina, la moglie di Mauro ha preparato una cena per panzoni romani, non per gente che viene dal Nord tedesco e che di sera mangia pochino da anni.
Insomma una gran faticata, perché la robba è bona e fa dispiacere lassalla nder piatto, ma quanno è troppo è troppo, che s'ha da fa? Alla fine Cristina, povera anima, ce fa "avete mangiato poco assai" che te dovemo da dì cocca mia?
Se ritorna sotto l'acqua che è stata la componente vincente della nostra vacanza e si va a letto per l'ultima notte romana o ostiense per essere precisi.
L'indomani mattina alle nove fa 16 gradi, niente vento solo sulla spiaggia, e , pensate un po', alle dieci e mezza viene fuori il miglior sole de Roma, lo possino ammazzallo, proprio adesso che ce ne stiamo andando. Ci vuole prendere per il sedere.
Uno spaghetto rapido buttato giù, poi via di corsa verso Ciampino ché alle 14,55 decolla il nostro volo.
Lasciamo Barbara molto dispiaciuta, Roma sotto un sole de estate, l'ariposseno ammazzà, e ci avviamo al nostro aereo. Anna Maria avanti a me come una veterana, ma io questo lo sapevo e glielo avevo detto. Nessun disturbo nel volo di ritorno, ha letto il suo giornale tutto il tempo, mentre il resto della famiglia a terra segue il nostro volo chi al PC chi al telefonino con un programma dove si vede sempre la posizione esatta dell'aereo. Una cosa carinissima sapere, magari dopo, che tutti sono stati lì a guardare come ti andava.
A Baden Baden c'è Alessandro che ci riporta a casa.
È stata un'esperienza meravigliosa. Ringrazio i miei figli e i miei nipoti che l'hanno organizzata.
Ho passato tre giorni magnifici anche se sotto la pioggia, ho svezzato Anna Maria che adesso già sta pensando al prossimo volo e non ho pensato alle quotidiane miserie.
Che cosa chiedere di più dalla vita?
Un Lucano, magari! 










domenica 9 febbraio 2014

I MIEI GLORIOSI PRIMI E SECONDI QUARANTA ANNI - 9 FEBBRAIO 1934 - 2014

Nessuno mi aspettava. Erano mesi che in quella che sarebbe diventata di lì a poco casa mia circolava l'idea che fosse arrivata l'ora per un altro bambino, visto che l'ultimo stava per oltrepassare la soglia dell'abbandono dei calzoni corti per indossare quelli alla ciclista chiusi dieci centimetri sotto il ginocchio su calzettoni rigorosamente a quadri scozzesi. Le mie due nonne, che coabitavano coi miei genitori -nonna Anita, col 42 di piede, gigantesca con due tette a davanzale e nonna Michelina minuta e felina- cominciavano a sospettare che mia madre non fosse più capace di farsi ingravidare da mio padre, o che forse non volesse più per via dei suoi 34 anni oramai prossimi. 
Circolavano battutine salaci, sorrisetti ambigui, occhiate di complicità e poi tutte le mattine in chiesa alla prima messa, perché le donne rimaste vedove schizzano fuori dal letto prima che possono, visto che quelle lenzuola bruciano il sedere con ricordi che più il tempo passa più diventano violenti e tentatori. E loro due, Anita la tettona e Michelina la gatta mammona, a confessare peccati immaginari e a pregare la Madonna vergine e madre, soprattutto la madre, che rendesse quella ultratrentenne ancora capace di generare.
Mia mamma invece mi aspettava, ma non così presto. Tutta colpa di mestruazioni impertinenti che avevano continuato a sgocciolare fino a tre mesi prima di Natale. Per cui nei suoi calcoli durante quella settimana di fine anno a Perugia -una gradita vacanza con marito, figlio tredicenne e la rarità di una Leika a soffietto pronta a immortalare lei, il ragazzo e la panzetta appena sporgente- mia madre era convinta di portare a spasso appunto una panzetta di appena tre mesi, mentre invece era di otto suonati. Lo avesse saputo non avrebbe fatto gare di corsa in salita su per le scalinate delle chiese sfidando il marmocchio in calzoni corti e sballonzolando nel proprio liquido amniotico l'altro completamente ignudo che, vittima di quei salti, andava attorcigliandosi il cordone ombelicale a mo' di mutanda in basso e di collare in alto. Un bel pacchetto confezionato nel momento in cui il futuro neonato -cioè io- cominciava a infilarsi col capoccione nell'angusto e buio corridoio finale tutto in discesa, imbracato nel proprio cordone ombelicale come una forma di provolone.
Per questo quando incominciarono le doglie la mattina di giovedì 8 febbraio le due donne vigilanti furono d'accordo, come sempre accadeva, nel diagnosticare un mal di pancia. "Mangi troppe schifezze, figlia mia", fu il gelido giudizio di nonna Michelina. "E ingozzi il cibo troppo in fretta", aggiunse nonna Anita. Prepararono un clistere di un litro di acqua calda e olio di oliva, e mentre nonna Anita teneva alto il vaso la collega là sotto infilava la cannula nel buco giusto, aprendo subito la valvola a farfalla. Ma non entrò nemmeno la metà del liquame perché lì dentro c'ero io a premere sugli intestini e a ingombrare tutto lo spazio. Posso immaginare il guazzo e la sorpresa delle due dame nerovestite.
Ma fu mia madre a terrorizzarle sgridandole per averle allagato cosce e pancia in abbondanza, perché quando si decisero a pulirla si accorsero che quel liquido ben altro colore aveva, ben altra viscosità e che fuoriusciva non dallo sfintere anale.
"Le si sono rotte le acque!", gridò nonna Anita, che ancora reggeva il vaso del clistere sopra la testa. 
Nonna Michelina disse solo "Oh Dio mio!" e corse a chiamare la Sora Tina, al secolo Assunta Guidi, la capace levatrice che aveva fatto nascere mezza Civitavecchia.
"Non è nemmeno di sei mesi", provò a protestare nonna Anita. "Eh no, signora mia", replicò la Sora Tina dopo aver infilato le sue lunghissime dita dove doveva. "Questa è una testa di nove mesi suonati".
Al termine di un infinito giovedì di muggiti di mia madre, guaiti di mio padre, giaculatorie delle due donne troppo vestite di nero, la Sora Tina si sfilò i guanti di lattice e rimase a mani nude.
"Che ora s'è fatta, Sor Amlè?" E mio padre: "È l'una de notte. Ve lo faccio un caffè, Sora Ti?" E lei: "Doppo, adesso lassateme tirà fora sta creatura, sinnò questa qui me more sotto le mano".
Infilò le sue lunghissime dita più in alto che poté, torse con forza il polso, di là, di qua, nuovamente di là e dopo dieci minuti tirò fuori un salame di pur porc dal vivido color prugna. "Avete fatto un bel maschio, Sora Marì", disse la Sora Tina, "bello, grasso e cazzuto". "Che bello! So contenta", rispose mia madre, ma sicuramente pensò -che fregatura, io volevo una femmina-.
"Allora ve lo porto sto caffè?", chiese mio padre.
"E che state aspettanno?"

Quella è stata l'unica volta in cui è successo qualcosa di importante nella mia vita senza che io apparentemente abbia fatto nulla. Apparentemente, ripeto. Infatti durante il laborioso travaglio io ho ascoltato tutto: voci che conoscevo e altre mai sentite prima. Ho lavorato sodo: ho tenuto a bada il cordone ombelicale che cercava di soffocarmi, infatti sono uscito a conquistare il mondo con una pelle da pakistano, color melanzana prossima a marcire. Per uno strano scherzo del destino 39 anni dopo un analogo cordone ombelicale ha tolto la vita al mio quinto figlio, il gemello di Federico. Lui non ha avuto la mia fortuna, o meglio non c'era la Sora Tina per lui. Quel giorno mi sono però preso una gran paura: mia madre mi ha raccontato di un tremore a tratti violento come uno spasmo che mi scuoteva durante le prime ore di quel venerdì. Avevo forse già intuito che quella battaglia che avevo combattuta apriva la strada a una serie di conflitti col mondo nel quale ero appena capitato. Ben presto dovetti rendermi conto che per vivere bisognava lottare. Mentre mio padre -che per noncuranza quasi mi lasciava soffocare con un biscotto della salute, per sbadataggine mi slogava una spalla, per eccesso di confidenza mi toglieva il cappellino durante una passeggiata sotto il sole d'agosto procurandomi una farabutta insolazione- veniva privato di ogni opportunità di allontanarsi da solo col suo figliolino ("e so tre, adesso basta, amore mio, sennò me l'ammazzi sto poro fjo"), per parte mia venivo privato dell'opportunità di fare i sacrosanti comodi miei e segregato in casa sotto lo sguardo vigile di mia madre e quello torvo delle mie due nonne, delle quali nonna Michelina oltre alle occhiatacce aveva anche mani velocissime e nocche ossute che mi arrivavano sul muso sotto forma di manrovesci volanti e precisi.
Ma a quell'età il tempo passa in fretta e ogni nato maschio ha la sua Elena. Menelao aveva più di 40 anni quando sposò la sua; Paride la metà quando gliela rapì e trenta quando gliela dovette rimollare. Io l'ho avuta a tre anni la mia bellissima Elena, la figlia più piccola del dottor Villotti. Sua sorella Mimì si faceva sbaciucchiare dal mio fratellone, mentre noi due pargoletti venivamo portati a passeggio come loro alibi e costretti a tenere il moccolo. Allora io pretendevo dalla mia Elena almeno che mi desse la sua bambola nuova, che diceva "mamma" se le pigiavi sulla pancia. Parecchi anni più tardi non si chiamava Elena la ragazza di nome Giovanna che diceva sempre "mamma, mamma mia!". Mi bastava premerle sulla pancia o giù di lì con una mano, cinque dita, a volte dieci, mentre la mia aspirazione era adoperare per certe raffinate operazioni l'undicesimo dito, il ditone, ma in quegli anni noi maschietti ci accontentavamo di sentirle invocare la mamma.
La guerra del Duce cambiò la nostra vita, di noi ragazzini intendo dire, quelli come me nati nell'anno XII del E.F. era fascista, per chiarire. Infatti a scuola si iniziava il dettato con la data in alto a destra e cioè, per esempio il giorno del primo bombardamento di Civitavecchia, 14 maggio 1943, scrivemmo in alto 14 maggio XXI E.F. Bello! Faceva tanto fino, tanto chic. Quel bombardamento ci fece veramente capire cosa significasse la parola guerra, usata fino allora come un vezzeggiativo, anche se a casa mia c'erano alluvioni di lacrime un giorno sì e l'altro pure per via del fratellone dichiarato "disperso in Russia".
Poi la guerra finì come Dio volle e tornammo alle città abbandonate. Della nostra non era rimasta nemmeno la metà delle case in piedi, le altre erano scheletri di mura, vestigia di un tempo defunto per forza. Nella casa di lusso -sei stanze e doppi servizi- dove ci trasferimmo, il salone d'angolo con il balcone era inabitabile perché mancava un pezzo del soffitto, un angolo intero. La chiamavamo la camera dei venti per via dello spiffero tra balcone, finestrone laterale e buco nel soffitto. Passò un anno prima che ce la mettessero a posto. In quella casa abitai tutto il tempo che occorse perché arrivassi alla maturità, all'Università e ai primi amori: Anna O., Agnese P. e finalmente Maria Luisa A.C., detta Lilly, che mi prese per il cuore, per i polmoni, per i reni, per gli inestini e infine mi prese per il culo, scavando il buco dell'abisso dentro di me.
Facemmo un sacco di fotografie in quella casa (vero papà?), fino a quella con indosso la diagonale di sottotenente di artiglieria. Con quella diagonale arrivai a Udine il primo mattino del 10 gennaio 1960, insieme al altri sei poveri cristi, che dal morbido inverno romano erano stati scaraventati nel freddissimo Friuli.
Quei fetentoni dei miei conterranei misero in giro la voce che io fossi lo sciupafemmine magno, il supinatore di via Merulana, colui che osculava ogni bella fica non a stampo ma con la lingua di un formichiere, insomma il più ricercato leccafica e frullasorca di Roma e provincia. "Visto che le metti tutte sdraiate, prova a farlo con AM, la più bella ragazza della Bassa Friulana e la più tosta". Mi sfidarono gli ufficiali anziani del mio Reggimento. "Fatemela véde e poi vi dico", fu la breve risposta che diedi senza raccogliere il guanto.
La vidi una domenica mattina, rovinai tutto quella domenica sera ("quando c'è quel cretino tu non chiamarmi" disse lei alla sua amica, che aveva procurato l'incontro); ricucii per tigna tutto il martedì e lei accettò di uscire solo per curiosità ("volevo vedere se eri veramente così stupido"). Mi ripromisi di sdraiarla come le altre e ci riuscii il 5 maggio di tre anni dopo in un albergo di Sirmione, dove eravamo in viaggio di nozze.
Dopo quella prima domenica di maggio la vita ebbe una violenta accelerata, al punto che giorni di poche ore correvano rincorsi da giorni sempre più brevi, fermandosi appena un 2 di febbraio, quando nacque Monica, un 10 maggio (sempre maggio) quando nacque Stefania, un 17 giugno quando nacque Alessandro e un 20 settembre, quando arrivò Federico, perdendosi per strada il suo gemello, cui rimase attorcigliato per troppo tempo intorno al collo quel famigerato cordone ombelicale che non era riuscito ad accoppare me 39 anni prima. Un altro giorno di maggio, il 24 maggio 1971, abbandonai l'Italia per disperato bisogno di un lavoro e durante una interminabile notte sbarcai a Francoforte in mezzo ai crucchi. Ci ho scritto la mia poesia più lunga -un'eccezione, io scrivo di solito poesie brevi- ma in quel giorno cambiò la mia vita e quella dei miei: fine della fanciullezza, della goliardica spensieratezza e arrivo repentino e doloroso della maturità, del punto di non ritorno. 
Nel capoluogo dell'Assia si conclusero i miei primi quaranta anni in un turbinio di bottiglie di vino, di spumante di Asti, di cartoni di Vecchia Romagna, di Stock 84 e di fine grappa friulana, che erano i prodotti che io vendevo in Germania. Sbucavano qua e là grosse forme di grana padano e di provoloni Auricchio. Tornava il provolone, di un bel colore giallo paglierino, lucido, che niente aveva a che vedere col provolone color prugna, che scendeva lungo il collo dell'utero materno tenuto stretto e fermo da un robusto cordone ombelicale in una gelida notte di febbraio di quaranta anni prima.

Non voglio mettervi paura, amici cari: i miei primi quaranta anni sono stati anni di cazzate e di conquiste, più cazzate che conquiste, ma ci sono voluti 480 mesi perché si concludessero. I secondi penso siano durati meno della metà del tempo, quindi vi resta poco da leggere per arrivare ai giorni nostri.
Intanto mi sono messo a studiare da giovane, ma da tanto giovane: studiavo da bambino. La cosa più difficile per un adulto è tornare all'innocenza pura, senza bruciare le proprie carte in una imitazione alla "tale e quale" dei propri pargoletti. Non è dignitoso imitare i figli, che contemporaneamente stanno imitando te; diventi una scimmia di coccio e loro un adulto di porcellana, ma il coccio è coccio, vuoi mettere, nemmeno lo puoi lucidare e se ci batti sopra con le nocche non vibra, non squilla, fa solo un rumore abortito di pantegana morta, putrida e gonfia di gas da decomposizione. Ma io studiavo da bambino rischiando il putridume e gli anni svolazzavano via frettolosi come le vecchie vedove alla prima messa.
I miei bambini intanto crescevano, i quattro che avevo collaborato a far nascere in otto anni di frenate, di marce indietro disperate, di coitus interruptus, in cui avevo dato il mio robusto contributo alla prosecuzione della specie, cercando di non eccedere e di non far diventare Annamaria la madre della nazione, dopo che mi ero accorto che ero capace di ingravidarla anche solo telefonandole.
Nel quarantennio successivo al primo la mia tribù ha procreato sei volte con l'aiuto di un paio di puledri di razza e di una cavalla molisana. Insomma noi Iacoponi la nostra parte l'abbiamo fatta, e adesso che tutta questa bella gioventù galoppa tirandosi dietro chi già arranca col fiatone non può che andare bene, se è vero che When the Saints go marching in e tutto insieme a loro procede celermente.
Ah sì, certo, dimenticavo. Non ho prodotto solo individui -sempre in pareggio, con equa distribuzione dei due sessi: due figlie, due figli, tre nipoti maschi e tre femmine, per cui adesso stiamo sei a sei- ma contemporaneamente più di seicento quadri, almeno tre volte tanti disegni; ho scritto una cinquantina di racconti, lunghi e brevi, cinque romanzi, di cui due pubblicati; qualche centinaio di poesie, delle quali una prima raccolta è stata pubblicata due anni fa.
Ho lavorato in teatro come pittore realizzatore di scena; ho fatto il camionista e il tassista e mi sono divertito da pazzi in mezzo a giovani e giovanissimi di etnie e religioni diverse in uno Jugendzentrum, un posto meraviglioso dove si raccoglievano ragazzi dai 12 ai 20 anni a sentir musica, a farla, a giocare e a fare spettacoli teatrali. Non mi sono mai divertito tanto, non ho mai sentito tanta affinità coi miei simili. Si può dire che quei due anni allo Jugendzentrum di Wörth am Rhein abbiano felicemente concluso il mio apprendistato da bambino. Negli anni immediatamente successivi ho preso il Master e adesso insegno l'arte di rimanere giovane a chi ne abbia voglia. Per ultimo ho aperto un blog, dove sto scrivendo questo mio pezzullo.
Un blog è una gran bella cosa, è come la civetta da richiamo degli uccellatori: la civetta batte le ali, lancia i suoi acuti strilli e gli uccelli accorrono a stormi. Tanti curiosoni, tanti perditempo, tanti guardoni, anche un paio di imbecilli, attaccabrighe di professione, ma anche tanta gente perbene, di qualità e d'ingegno. La selezione avviene automaticamente, tutto si screma e restano quelli buoni, anche se qualche imbecille si salva sempre e continua a galleggiare. Qualche volta la selezione ha bisogno di tempo perché il male a volte è ben nascosto e occorrono mesi per poterlo scovare ed eliminare. Ma ho dato inizio anche ad amicizie, quelle vere, quelle destinate a durare a lungo nel tempo. A me sono toccati in sorte un gruppo di amici e di amiche veri che senza il web non avrei mai potuto incontrare. A volte sorgono equivoci, ma se si è sinceri ci si capisce sempre a lungo andare. Pertanto ringrazio Iddio di aver bissato i quaranta anni e di essermi inoltrato nell'era della tecnologia.
Il sogno continua. Da domani metto piede nel terzo quarantennio. Sarà difficile concluderlo, mai però porsi traguardi di tempo. Solo un desiderio: adesso che sono riuscito a tornare bambino vorrei fermarmi in tempo, non ci tengo a tornare neonato. Non se lo aspetterebbe nessuno. Quindi niente.

















sabato 8 febbraio 2014

ROBERTA



Roberta beveva solo
vino rosso,
Roberta ballava il tango
soltanto con tangheri molto alti e forti.
Roberta doveva morire da piccola
di tifo. La salvò l'ufficiale
americano col suo
elicottero verde e nero:
duecentocinquanta chilometri
in venticinque minuti
fino all'ospedale.
Roberta amava tutti
allo stesso modo,
rotolandosi insieme nel suo letto
da una piazza e mezza.
Roberta mi ha tradito
mille volte
e io mille volte l'ho odiata
e mille volte ho desiderato
di ammazzarla,
ma non ho trovato mai il coraggio.
Questa notte il polacco
dai lunghi capelli rossi ha trovato
il coraggio di darle trentaquattro coltellate.
Adesso Roberta è finalmente tranquilla
e io ho incominciato a morire.

(scritta il 7 febbraio alle ore 17,14)

giovedì 6 febbraio 2014

IMMOBILE COME UNA SPIGOLA


Rimango muto e immobile
come una spigola che si nasconde
ai predatori, prosciugato e indifeso.

Oltre quell'orizzonte
là in fondo,
dove si inabbissano le navi,
che inghiotte l'ultimo sole ogni sera,
ci deve essere qualcosa di più vivo,
più luminoso di quello
che resta qui sulla mia fredda spiaggia.

I miei piedi sprofondano 
nella sabbia,
come serrati nel cemento
e vano è per me l'urlo del gabbiano
che pesca l'ultima preda
del giorno.

È l'ora di pensare cose tristi
e irrealizzabili,
non c'è pace nel buio, solo rabbia.


(Scritta il 4 febbraio alle ore 11,33)

martedì 4 febbraio 2014

SOTTO UN SOFFITTO DI PIOGGIA


È come camminare
sotto un soffitto di pioggia,
spostarsi dentro un cubo d'acqua
falsando momentanee trasparenze,
fiato che appanna i vetri,
non lascia vedere
la strada delle cattive intenzioni
ma solo fluorescenze ingannevoli
e dolorose.

Qualcuno ti chiama.
Tu cerca di sapere il perché.




(Scritta il 4 febbraio alle ore 03,17
per il compleanno di Anna Maria)




lunedì 3 febbraio 2014

TRE POESIE ANTICHE RIVISITATE


SUFFRAGIO


Suffragio: litoranea di misteri
accavallati.

Tetti roventi di sole,
rotaie aguzze come spade
e sassi fra le rotaie;
fumo di legna bagnata,
odore di legna bagnata
piena di istinti
compressi, inadeguati.

Non asfalteranno più strade né piazze.

Una preghiera antica
ha ancora senso
in
questo
paese?




NORMA


Aperta e liscia concubina alata,
ventre pianura, seni implumi,
zigomi d'acero, natiche d'erba petrosa;

latte tiepido
zampillo sul grido del rapace.

Pervinca abbandonata, blu cobalto.

Se piangi
se implori
qualcuno ti udirà.




QUALE


Inseguire il colpevole
fino in capo al mondo,
colpirlo e abbandonarlo trafitto;
oppure ignorarlo
e lasciarlo che muoia nella paura
della sua solitudine,
quale
di questi metodi
è il più crudele e piacevole?











sabato 1 febbraio 2014

VENTO DI CRISTALLO


Succhia vento di cristallo
questa notte inutile senza desiderio.
Qualcuno preme una benda sui miei occhi:
procedo a tentoni
brancolando nell'indolente oscurità.

Nemmeno parole.
Sono ombre 
nella soffitta della memoria,
picchiano su pareti invisibili cadendo
a terra trafitte.

Verso l'alba un sussulto,
un lampo sonoro, un richiamo,
una risposta a me che aspettavo
il quotidiano gesto
che non è più di rifiuto.