sabato 30 giugno 2012

IN UN NOTTE DI TANTI ANNI FA

Avevo questa poesia nella testa e nel cuore da parecchio, poi ho letto il post di mgg64 "Io mi chiamo Sara e ho un fratello più grande di me" e le parole mi sono scese nella penna, già, perché io scrivo ancora a mano.
Il post mi ha solo ispirato il passo e il taglio della poesia.

In una notte di tanti anni fa
camminiamo tutto il tempo l'uno
al fianco dell'altro, quasi senza parlare.
Tu scavalchi una panchina con
un agile balzo, io prendo a calci
un barattolo vuoto. Li buttano tutti
in mezzo alla strada. Adesso
lo calci anche tu, ma io non scavalco
panchine, mi fa ancora male un ginocchio
per la caduta di qualche tempo addietro.
Non ci vediamo da un mese,
ho avuto due esami all'Università:
Fisiologia e Patologia generale.
"Che è successo all'Alfa 2000?", ti chiedo.
"Ho fuso. Viaggiavo quasi senza olio,
e poi ho un'altra ragazza".
"Grazia che fine ha fatto?"
"Non usciva più alla sera; sua madre l'ha
messa sotto, così l'ho piantata e amen".

In una notte di parecchi anni fa
siamo appoggiati a un muretto sul lungomare
io e te, come quando eravamo ragazzi.
Non ci vediamo da un sacco di tempo,
e l'alba è lontana e tante le domande.
"Quanti figli hai adesso?", vuoi sapere.
"Due bambine, e tu?". "Un maschio".
"Solo uno?". "Ci stiamo pensando".
"E tuo padre come sta?". "Male, ma se la cava".
Mi fa piacere per il suo vecchio ma divento
di nuovo triste: io sono tornato
per il funerale del mio.
Ci mettiamo in cammino fianco a fianco
sempre diritto, senza voltare, e arriviamo
a piedi fino a Santa Marinella, 
e poi torniamo che albeggia e ci raccoglie
sull'Aurelia una pattuglia dei carabinieri.

Adesso dove sei?
In quella città non vivi più.
Ti ho cercato su Google
e son venuto fin qui
col primo treno e le ultime forze.
Così, in una notte di qualche tempo fa
siamo di nuovo insieme tu e io
seduti su una panca nel tuo cortile.
Ci sono palazzi tutto intorno e qualche luce
è ancora accesa. Gente che non può dormire,
come noi. La luce di un lampione
si riflette sulle spesse lenti dei tuoi occhiali;
sei quasi calvo, io invece bianco
come un orso polare. Ci guardiamo
in silenzio. Poi cominci tu, come al solito.
Mi dici che hai un cancro, come quello
che ha distrutto tuo padre, che sei
un terminale e che io sto parlando con un morto.
Allora non ti racconto i miei guai, ne hai
abbastanza dei tuoi; così non ti dico
perché ti ho cercato, perché volevo vederti
per l'ultima volta. Quando me ne andrò
voglio che pensi che almeno uno di noi
è fortunato, che almeno uno di noi due
vivrà a lungo. Questo voglio, amico mio.

giovedì 28 giugno 2012

GOOGLE : CASE EDITRICI ITALIANE - WUZ

-Come va quel tuo libro in Italia?
Mio figlio Alessandro quando è sazio fa domande improvvise e strane. Ieri è venuto a trovarci, combinazione all'ora di pranzo, e ha mangiato insieme a noi.
-Quale libro?
-Il tuo ultimo, Francoforte sul Meno. Come va?
-Non troppo bene.
-E perché?
-Se non fai pubblicità.
-E perché non la si fa?
Ho incominciato a spiegarglielo e ci ho messo del tempo perché non mi seguiva molto. E come poteva poverino? Adesso lo spiego a voi, così lo chiarisco per bene anche a me stesso, perché forse c'è ancora qualcosa che devo capire.

Tutto incomincia quando inizio a cercare un Editore su Google. Vado su "Case editrici italiane - Wuz" e ne trovo una trentina ad hoc. Mail a tutti. Incredibile, ma rispondono tutti entro una decina di giorni.
Tutti chiedono il testo via mail; qualcuno si loda e si sbroda per l'attività svolta sul mercato; un editore mi spedisce un romanzo con una serie di locandine. Leggo il romanzo a mo' di lettore "scrematore" editoriale, mestieraccio che ho fatto decenni or sono durante il mio periodo universitario, che consiste nel leggere dall'incipit per 20/30 pagine, poi ad apertura di libro circa alla metà del testo altre 20 pagine e le 15/20 conclusive. Leggo le mie 60/70 pagine e scarto l'editore: una serie di melensaggini degne del miglior premio Strega di Mondadori.
Nessuno parla di contributi.
Dopo una ventina di giorni mi arriva tutta una serie di lodi e di belle espressioni di compiacimento per il testo che ho scritto.
Tutti, ripeto tutti, sarebbero disposti a pubblicare l'opera -e qui una lunga serie di promesse sulla distribuzione, le recensioni e la pubblicità del libro.
Tutti, ripeto tutti, mi chiedono però un contributo, sotto forma di acquisto di 100/200 copie o altre forme, per una cifra che oscilla dai 1200 ai 3400 euro (sic!).
Inaccettabile per immoralità. Uno scrittore non deve pagare, ma essere pagato. Punto.
Per ultimo risponde un editore, che mi invia un fac-simile di contratto. In grandi caratteri e in grassetto sta scritto:
"Informiamo i lettori e gli autori che la nostra casa editrice non usufruisce né di finanziamenti pubblici né di finanziamenti da parte degli autori. Ci autofinanziamo con la nostra capacità di stare sul mercato"
Mi invitano a chiamarli al telefono per prendere accordi.
Esplicata la formalità richiesta mi ritrovo con nessuna promessa nelle mani, ma solo una serie di informazioni e un appuntamento a Roma a inizio dicembre. Devo fare l'editing da solo; devo raccogliere tutto in un CD che mi porterò dietro; non ci sarà correzione delle bozze. Tutto per risparmiare, mi dicono.
Nel contratto che controfirmo ed invio per raccomandata sta scritto in calce che viene invitato a non firmare chi ritiene di aver scritto un capolavoro immortale e chi pensa "che l'editore debba sobbarcarsi da solo l'onere della diffusione. Anche l'autore deve collaborare coi suoi mezzi per la diffusione ed il successo dell'opera".
Il 2 dicembre dello scorso anno, un venerdì, dalle 10 alle 16 viene stampato il libro, fatta la copertina e rilegato. Dal mio CD con una delle 12 stampanti elettroniche, viene prima formattato, penso in pdf, poi vengono stampate due copie.
Il tempo di mangiare un boccone e ritornare e il libro è pronto, anzi le due copie del libro, che sono di mia proprietà come da contratto.
-Quante ne stampate ancora? Chiedo pensando alle solite 300 copie.
-Aspettiamo la richiesta delle librerie. Qui non abbiamo posto per il deposito, mi risponde uno dei due soci. L'altro non l'ho mai incontrato, ma esiste: ha chiamato una decina di volte al telefono e qualcuno si è anche rotto.
In sostanza stampate solo copie due.
Ordino altre sei copie, che pago con lo sconto del 25% e do loro l'indirizzo di mia nipote a Ostia come recapito, perché le stamperanno lunedì 5 dicembre, quando sarò già rientrato a casa mia.
Dal momento che esco dai loro locali non ho più alcuna notizia del mio libro né dei suoi editori. Le sei copie arrivano come promesso, ma tutti quelli che hanno cercato di procurarsi il mio libro hanno dovuto sudare sette camice.
Un professore universitario di letteratura italiana, che mi segue da anni, mi manda via mail una splendida recensione, che immediatamente inoltro per la stessa via all'editore, pregandolo di inserirla nella presentazione del libro sul proprio sito web, come si conviene. A tutt'oggi non l'ho vista né ricevuto riscontro alcuno.
Il libro da solo non si muove, anzi in questo caso non si auto stampa. 
Mi sono posto una domanda: ma come campano questi qua? Costo del materiale, affitto di un locale, quattro stipendi da pagare, tasse da pagare, se non vendono copie come tirano avanti?
Poi mi si è accesa una lampadina nella testa, complice una frase di Mia Euridice.
"Se non ci sono bollini della SIAE significa che costoro non ti pagheranno mai un centesimo  dei tuoi diritti". E io bollini SIAE non ne ho visti.
Eppure è tutto molto semplice, amici miei, un gioco per bambini. Si chiama: 
"CACCIA ALL'ALLOCCO".
Funziona così.
Lo specchietto per le allodole di varia età, dalle più giovani alle meglio stagionate, consiste in quella pomposa dichiarazione di intenti: noi stampiamo le vostre opere gratis. Nel mare di sanguisughe che sono a caccia dei tuoi soldi ti appare come un faro luminosissimo posto su una placida plaga di sicurezza e tranquillità. E tu abbocchi.
Il lavoro di editing e di correzione però è tutto a tuo carico, loro impaginano nel formato 21  per 13 due sole copie, che sono un omaggio all'autore, come da contratto. Le altre eventuali le producono solo a richiesta delle librerie, non ci sono resti di magazzino ma solo copie sicuramente vendute.
*) Considerato che sulle prime 200 copie non pagano diritti ritenendole "rimborso per le spese effettuate";
*) considerato che ogni autore porta in media un seguito di circa 100 compratori, tra parenti amici e conoscenti, e che questa è in fin dei conti l'unica azione promozionale del libro;
*) considerato che la casa editrice in questione ha stampato negli ultimi 24 mesi ben 762 titoli, quindi più di uno al giorno;
*) considerato che il prezzo di copertina è altissimo (per esempio per 272 pagine 19,90 euro, per 104 pagine 12,90 euro, per 301 pagine 21,90 euro) e configurandosi una media approssimativa per difetto di 15 euro a volume per 100 copie vendute, si possono fare alcuni conti.
762 x 100 = 76.200 copie vendute in due anni
76.200 x 15 = 1.143.000 euro incassati in 24 mesi, che fanno 570.000 circa in un anno
Spese:
materiali 5% = 28.500 euro
affitto di un locale modesto in una zona di periferia 600 al mese = 7.200 euro
diritti di autore corrisposti = 0,00 euro
stipendi lordi per 4 persone a 2500 per 13 mensilità = 130.000
tasse pagate su un massimo del 50% del fatturato effettivo e cioè
285.000 x 30% = 75.500
fanno un esborso finale annuo di 240.000 euro circa
e pertanto 570.000 - 240.000 = 330.000 al netto delle tasse e delle spese.
Calcoliamo ancora 30.000 di uscite pro bono malum come spese varie e perdite accidentali, rimangono 300.000 annui di euro netti, puliti da dividersi tra due soci.
150.000 netti all'anno per uno, solamente accalappiando allodole e gonzi mi sembra un gran bel vivere.
Questa coppia di Hurensöhne hanno avuta la pensata del secolo, altro che storie. Io, merlo del cacchio, l'ho capito troppo tardi, ma avrei dovuto immaginarlo subito: come può mai venire qualcosa di buono e di pulito da un'intrapresa residente a Roma? E pensare che sono nato a Civitavecchia e a Roma ho vissuto una vita.
Imperdonabile.
Posso solo impugnare il contratto alla scadenza dell'anno per inadempienza e passare tutti gli elementi al mio ex compagno di banco e amico per cinque anni di liceo, andato in congedo col grado di generale di corpo d'armata della Guardia di Finanza.
Che se la veda lui.
Che questa moderna coppia del Gatto e la Volpe la smettano almeno dei scrivere di "autofinanziarsi solamente con la loro capacità di stare sul mercato"!


lunedì 25 giugno 2012

PER CHE COSA

Per che cosa insisto a lamentarmi
io che sono circondato da milioni
di estranei che neppure si accorgono di me?
A chi dovrei rivolgermi allora,
visto che l'onda dove affondo nemmeno
mi bagna? Perché piuttosto non porre 
ascolto al vento che fa cigolare
i rami degli alberi qui intorno,
e tradurre quei soffi costanti, e capire
che altro non sono che lamenti di quei
milioni di estranei che non
si curano di me, come io stesso
faccio con loro?
Vivere come bambini dovremmo,
che giocano, litigano, corrono, saltano
cadono e piangono, per poi finire
con una risata tra le lacrime.
Vivere in allegria, morire
in allegria: questo è possibile
a tutti e abbandonare i lamenti.

sabato 23 giugno 2012

SAFETY CAR

La pista è piena d'acqua
e si incomincia a volar fuori,
la safety car è già sul percorso.
Qui a casa nostra ce ne vorrebbero due
una per me, una per te e si scivolerebbe
lo stesso. Colpa mia, colpa tua, non lo so
ma di sicuro è colpa nostra.
Forse perché 
io non so fare come mio padre
che se ne andava via con la sua
macchina fotografica a tracolla
finché l'aria di casa non era
tornata respirabile.
Quello era un uomo saggio
che si adattava al mondo,
io il solito prepotente che lo vorrebbe
far girare al contrario.
Forse perché
tu non fai come mia madre
che si girava dall'altra 
parte canticchiando
mentre io l'insultavo.
Quella era una donna intelligente
che aveva capito come cammina il mondo,
tu sei la solita testarda
che lo vorrebbe fare star fermo.
Te lo avevo detto appena
conosciuta e te lo ripeto adesso:
io devo essere preso a piccole dosi
altrimenti  rimango sul gozzo.

mercoledì 20 giugno 2012

L'ETERNITÀ

Tu vuoi sapere cosa sia l'eternità
e io te lo spiego, figlia mia,
senza usare bizzarre parole
ma con un facile esempio.

Metti che il mondo sia finito ieri
pomeriggio e che tu ti trovi
oggi in una grande pianura,
senza vento, senza sole,
senza il buio della notte.
Di fronte a te vedi un monte spoglio,
senza alberi, senza sassi, senza
terriccio, senza erba. Metti che tu
abbia con te solo il tuo cellulare
con un'infinita carica
e che tu salga sul monte per cercare campo
e per telefonare, perché puoi chiamare
chi vuoi in tutto il mondo, gente che conosci
e gente di cui non sai nulla.
Tu chiami e una voce registrata
ti dice che il numero desiderato non è
attivo. Tu chiami e senti un click,
come qualcuno che ti chiuda in faccia
il telefono. Tu chiami e dall'altra parte
qualcuno è in ascolto ma non proferisce
parola. Allora ridiscendi in pianura
e riprovi, ma non ottieni nulla. Risali
sul tuo monte e chiami tutti quelli
che puoi chiamare, numeri conosciuti
e numeri fatti a caso; ma nessuno
risponde, e adesso sempre più spesso
la voce registrata ti dice che il numero
desiderato non è attivo, non è più attivo,
non è mai stato attivo.
E tu continui, figlia mia, a salire sul monte
e a scendere dal monte, senza che soffi
un alito di vento, senza un raggio
di sole, senza che scenda il buio della notte.

Questa è l'eternità, figlia mia.

domenica 17 giugno 2012

DI NUOVO TRE POESIE

Lo so che qualcuno di voi si lamenta perché le poesie dovrebbero essere trascritte una per volta, ma allora come la mettiamo con le raccolte? Questa non è una silloge: sono le ultime tre che mi sono uscite dalla penna durante le mie deambulazioni notturne nel mio appartamento. Mi scuso quindi con chi già sbuffa: si consoli, sono brevi e di facile lettura.


QUESTA  MATTINA

Questa mattina, mentre
mi radevo la barba, ho visto
dentro lo specchio le mie diafane mani:
ben curate, unghie corte e pulite,
quasi più nessuna traccia
di pelli strappate coi denti -un vizio
antico, fin da quando ero ancora
un ragazzo, mi ci batteva ogni volta
sopra una spazzola mia madre
per farmi smettere-;
adesso solo il pollice
della mia mano destra
mostra segni di violenza.
Voglio smettere del tutto,
devo farcela prima di morire,
e presentarmi a mia madre e a mio padre
con le mani in ordine
come quando ero un bambino.


PER  TUTTE  LE  VOLTE

Per tutte le volte che ti ho mentito
ho già pagato: le lacrime
del pentimento non tracciano
solchi sul viso, ma lacerano
vene nell'anima. Per tutte le volte
che stavo per tradirti
e non ti ho tradito non ho cercato
applausi, ma solo pensato
che avevo fatto una cosa giusta.
Adesso che mi accingo
ad abbandonare per sempre te,
fragile uccello implume
nel tuo nido scoperchiato,
l'inesorabile mano del tempo
si è impossessata di ogni
sentimento di pietà,
e io guardo quel che accade
come fossi sospeso sopra una nuvola.


PERCHÉ  MI CERCHI  AL  TELEFONO

Perché mi cerchi al telefono,
perché mi lasci bigliettini nella buca 
delle lettere, perché ti metti alla finestra
quando passo sotto la tua casa
in bicicletta veloce, perché mi scrivi
sui biglietti quando lo fai e come
lo fai? Io non voglio saperlo più.
È stato un errore chiedertelo una volta,
tempo fa quando tutto è incominciato.
Sono stanco di vederti nel buio della
mia camera da letto nelle braccia
di tuo marito. Al buio mi arriva
il profumo della tua pelle levigata, 
ma il profumo è troppo poco. 

venerdì 15 giugno 2012

FINE DI UN VENERDÌ DA TASSISTA

L'orologio sul cruscotto segna le 17,02 e sul consuntivo giornaliero sono registrate soltanto sei corse, per un totale di centoundici chilometri. Una miseria. Chiamo Klaus in centrale: è lui che dirige il traffico di tutte le macchine e assegna le corse. Non uso la radio di bordo, ma il mio cellulare, non deve sentire nessuno quel che ho da dirgli.
-Lo so che oggi fai schifo.
Non mi ha lasciato nemmeno aprire bocca. Aspetto in silenzio.
-Fra dieci minuti vai nella York Strasse al numero 19. Suona tre volte da Benninghof e poi aspetta in macchina.
Chiudo.
Al 19 della York c'è il casino privato più di lusso di tutta Karlsruhe. Stasera le signore finiscono il turno settimanale e si fanno riportare a casa. Abitano tutte fuori città.
Aspetto solo qualche minuto e poi la vedo dentro lo specchietto retrovisore che esce dal portone: una canna tutta curve sistemate dopo brevi rettilinei. Siede accanto al posto di guida, venti centimetri da me. Insieme a lei è entrata un'ondata di buonissimo profumo.
-Ciao bello, mi chiamo Isa. Ho lasciato il portone aperto: ci sono due valige dentro, valle a prendere per favore.
Mi immagino due valigione e invece ci trovo due valigine eleganti e firmate "Goldpfeil Offenbach". Roba di gran lusso, di pelle bianca, raffinata; penso si tratti di pelle umana. Le sistemo con cura nel portabagagli.
-Dove andiamo? Le chiedo col mio sorriso di maggior effetto.
-Conosci Mannheim? Fa niente. Vai con la 66 ed esci a Mannheim-Mitte, poi ti dico io.
Inserisco la tariffa 4 e intanto faccio mentalmente un calcolo veloce: 70/80 chilometri, più 20 euro per il ritorno, più 4 euro per le valige. Questa non mi dà meno di 200 euro. Ho fatto giornata. Devo comperare almeno due pacchetti di Marlboro per Klaus.
Isa si accomoda meglio accavallando le gambe. Mi arriva una seconda ondata del suo profumo.
-Cabochard vintage, mormoro mentre ingrano la prima.
-Te ne intendi, però.
-Lo usa mia moglie, rispondo, e intanto penso a una mia amica a Milano che lo usava un secolo fa, ma me lo tengo per me.
Isa chiacchiera per tutto il viaggio spostando di continuo graziosamente il suo graziosissimo culo sul sedile. Cambio con nonchalance l'angolo di visuale dello specchietto retrovisore interno così non devo girare la testa per vederle le mutande: tutte un merletto, rosse, ben combinate al suo profumo.
A Mannheim, nella Lassalleplatz, mi fa fermare sotto un tiglio. Non guarda nemmeno il prezzo indicato; mi mette in mano due fogli da cento e uno da cinquanta.
-Il resto è tuo, ma tu mi porti le valige fino a casa, bitte.
Un bel portoncino in lacca rossa, un colore che deve amare. Lo apre e io metto dentro le valige. Mi schiocca due baci sulle guance. 
-Sei molto carino. Da lunedì a venerdì sai dove trovarmi.
Sparisco prima che mi vengano strane idee.

Quando sono di nuovo nei pressi di Karlsruhe chiamo la centrale.
-Klaus, sono le sei passate, io chiudo qui.
-No. Vai sulla 36. A Neureut sulla strada principale sotto la chiesa ci sono due donne con vestiti lunghi  a fiori e una bambina. Caricale tu perché non ho nessuno libero.
Le vedo da lontano che si sbracciano per attirare la mia attenzione. Non ne avevano bisogno: mai visto due alberi di Natale addobbati in pieno giugno.
Dal numero delle collane appese al collo, dai bracciali d'oro che le tintinnano ai polsi, dalle vesti sicuramente di seta purissima e dal colore dei capelli si vede benissimo che sono due "Zigeunerinne", due zingare.
Mi pagheranno in piastre d'oro zecchino.
Siedono dietro parlando nel loro idioma assai musicale. La bambina mi siede accanto. Mi da un foglietto con un indirizzo: la Lohwiesenweg, dall'altra parte della città .
La bambina sembra affascinata dalla mia mano destra, che tengo perennemente sul cambio.
-Non sai reggere quel coso con tutte e due?
-Basta una. Non aver paura, andrà tutto bene.
Sembra tranquillizzata. Spinge la testa in avanti e cerca di guardarmi in faccia.
-Ce l'hai un cavallo?
-No, mai avuto un cavallo.
-Davvero mai avuto?
-Mai avuto.
-Non te ne piacerebbe uno? Magari piccolo, te lo vendiamo noi.
-Non posso, non ho una stalla.
-Lo lasci da noi. Te l'affittiamo noi la stalla.
-Meglio di no.
-Allora tu non hai un cavallo perché non vuoi un cavallo.
Sembra molto delusa.
Stiamo per arrivare.
-Ma almeno ce l'hai una vacca?
-No, nemmeno una vacca.
Mi lancia uno sguardo disperato.
-Magari un vitello, se vuoi.
Le sorrido. Sta per mettersi a piangere. Non deve avere più di cinque anni ed è bellissima.
Una delle due mi paga, non in piastre d'oro ma in vile moneta cartacea.
10 euro di mancia per otto chilometri. Vorrei trovarla ogni giorno una cliente così.

Premo tre volte il pulsante di chiamata e stacco la radio. Adesso Klaus toglie il mio numero dal quadro luminoso. Manca una manciata di minuti alle 19. Ogni sera a quell'ora, terminato il turno, passo per una stradetta periferica dove incontro sempre un Penner, come qui chiamano i clochard. Anziano, sofferente e claudicante, con un cappottone nero e sandali -a giugno-  trascina a fatica una specie di carretta con dentro uno zaino e un borsone. Passo per la stradetta anche questo venerdì sera per incontrarlo.
Rallento appena lo vedo e gli dico:
-Dai, sali, ti porto dove vuoi. Non ti costa niente.
A quella parola d'ordine si avvicina.
-E questa dove la metti? E mi indica la carretta.
-Nel portabagagli; non farti problemi.
Va in un boschetto lontano di lì una decina di chilometri. Ci ha montato una tenda canadese piccola, mi dice. Quella è la sua casa.
-Tu non sei tedesco, mi fa; quelli non si sarebbero fermati.
-Sono italiano.
-Di dove?
-Di Roma.
Mi guarda. Sorride e attacca:
-"...sapias, vina liques, et spatio brevi
spem longam receses, dum loquimur, fugerit invidia
aetas...".
E aspetta.
-"...carpe diem quam minimum credula postero", concludo.
Abbiamo recitato il finale dell'undicesimo carme del primo libro dei Carmina di Orazio, e lui ha pronunciato gli accenti della metrica in modo perfetto.
-Sai di latino. Sei mica un prete spretato?
-Guarda qui.
Mi mostra una sua tessera dell'Università di Colonia. è stato per anni Ordinario di Latino.
-Ma che ci fai mascherato da barbone?
-Punisco mia moglie che ha voluto il divorzio per andare con un altro. Così da me non becca un solo centesimo.
-Mi pare che punisci soltanto te.
-Io lì dentro ho tutti i miei libri, e mi indica la carriola; li leggo ogni notte.
-E come sbarchi il lunario?
-Scrivo note ogni tanto e faccio traduzioni. Le mando al mio editore, che le pubblica e poi mi spedisce i soldi nel giroconto che ho in una banca.
Siamo arrivati in una specie di accampamento: ci sono decine di tende.
-Quella rossa è la mia. Hic manebimus optime.
Mi offre un sorso di wodka polacca, fortissima.
-Se vuoi mangiare con me ti cucino una bistecca o una coppia di salsicce. Una cosa di pochi minuti.
Guardo l'ora: si son fatte quasi le otto. Alle 21 c'è un bel film sulla RTL e mia moglie lo vuole guardare insieme a me.
Mentre tentenno indeciso la spia rossa di allarme sul cruscotto comincia freneticamente a lampeggiare e a gracchiare.
Riaccendo la radio.
-Dove diavolo ti sei cacciato? Mi urla Klaus. Ci sono due macchine che ti stanno cercando: pensavo ti fosse capitato un guaio.
-Arrivo in cinque minuti.
Saluto il mio barbone. Mi regala una copia di un suo lavoro su Terenzio. Me la firma.
-Mi mancano i miei due figli, ma non voglio che sappiano come vivo.
*
Un paio di anni dopo ho smesso quel lavoro coi tassì e sono tornato in quel boschetto per incontrarlo. La tenda rossa non c'era più.


lunedì 11 giugno 2012

UOMO CONTRO

L'uomo non più tanto giovane inspirò aria con forza a bocca spalancata, poi starnutì violentemente. Mentre si soffiava il naso guardava a terra intorno a sé per trovare tracce di muco espulso. Ne pulì via una con la suola di una scarpa.
Terminò alla svelta il suo sudoku di media difficoltà e si preparò ad uscire.
Di nuovo starnutì spruzzando muco tutto intorno; di nuovo si soffiò il naso; di nuovo imprecò pulendo qua e là il pavimento con la suola di una scarpa.
Prese da un cassetto il suo orologio e se lo sistemò al polso; era l'ora giusta per uscire.
Lungo le poche centinaia di metri che lo portavano alla fermata dell'autobus incontrò gente. Nessuno lo salutò. Sentiva i loro sguardi scorrergli addosso come acqua piovana su un tetto. Non suscitava simpatia negli altri, né la cercava. Sarebbe rimasto in quella città ormai ancora poco tempo: voleva finire il suo lavoro in fretta e poi squagliarsela, senza mettere più piede in mezzo a quella gente.
L'autobus arrivò col solito ritardo. Lo prendeva da una settimana tutte le mattine, variando sempre l'orario e non scendendo mai alla stessa fermata. Ne passava uno ogni ora, dalle 7 alle 14, e tutti portavano quattro minuti di ritardo. In fin dei conti quella si poteva definire puntualità.
La poca gente a bordo teneva il naso contro il finestrino, ma un attimo dopo essersi seduto l'uomo non più tanto giovane sentiva i loro sguardi muoversi lungo la sua schiena come chiodi arrugginiti. Gente sospettosa e diffidente; avrebbe dovuto tener presente che nessuno si sarebbe dimenticato di averlo visto parecchie volte su quel bus. Un rischio in più, ma lo aveva calcolato e volutamente ignorato. A lavoro finito sarebbe svanito nel nulla. Per sua fortuna aveva una faccia come tante, che si scorda un momento dopo averla vista, una faccia comunissima: niente barba, niente occhiali, niente cicatrici, capelli corti brizzolati, sguardo insignificante, naso un po' gobbo ma non tanto. Gli veniva da ridere nel pensare al casino che avrebbe combinato tutta quella gente se avessero dovuto collaborare a tirar fuori un suo identikit. 
Intanto l'autobus era arrivato alla sua fermata, ma lui rimase seduto e scese non alla prossima, bensì a quella successiva.
Percorse lentamente i quasi tre chilometri di viale alberato in riva al mare, perché si era accorto di essere in notevole vantaggio sull'orario di entrata in quella scuola. Non gli era sembrato di essere uscito tanto presto quella mattina, segno che il suo nervosismo era aumentato e che doveva stare in guardia per non commettere errori.
Si concentrò sul mare, inspirando a fondo per calmarsi. Era diverso da quello della sua città natale, dall'altro lato della penisola: questo era più verde e l'odore  meno penetrante, meno salmastro. Il mare era stato la sua vita e forse proprio per colpa sua si trovava lì quella mattina. 
Quando aveva conosciuto Elvezia era un giovanotto senza arte né parte, uno squattrinato buono a nulla che aveva avuto la sorte di far innamorare di sé la più bella del paese. Adesso non doveva perderla, ma aveva bisogno di soldi per non sfigurare. A trovare un lavoro avrebbe pensato dopo, quello che gli occorreva subito era danaro facile e tanto
Un suo conoscente gli aveva trovato un job: fare da palo per un furto in un magazzino del porto, una cosa sicurissima, niente rischi, quella notte stessa. 
Era rimasto tutto il tempo in un angolo buio, seduto in terra perché non si vedesse la sua figura alta quasi un metro e novanta sul livello del mare, e soprattutto rimanere immobile per non mostrare la sua andatura dinoccolata da albatros al suolo, che faceva ridere tutti. 
Quanto tempo era rimasto nascosto in quel buco? Certo più di un'ora, e certo si era addormentato perché si era accorto dei carabinieri solo quando lo avevano tirato su per il bavero, ammanettato e impacchettato come un pollo.
L'avvocato di ufficio G. lo aveva consigliato di confessare e quella era stata la fesseria più grande che potesse fare, come gli avevano spiegato in galera i vecchi detenuti.
"Avresti dovuto dire che eri lì per una donna; non avevano nessuna prova contro di te. Il tuo avvocato ti ha fregato".
Gli avevano dato due anni senza condizionale e dopo dodici mesi lo avevano buttato fuori con le tasche vuote e con la fedina rovinata.
Di presentarsi da Elvezia non gli era nemmeno passato per la testa: lei non aveva risposto a nessuna delle sue lettere, di sicuro non lo avrebbe voluto vedere. Si era imbarcato a Livorno su un mercantile battente bandiera cilena come marinaio semplice. Aveva 29 anni e solo voglia di sparire.
Una vita a bordo, quasi 15 anni, da fuochista a macchinista a capo macchina. Mare e cielo tutto il tempo e donne a pagamento in ogni porto toccato. Una vita lontano dal suo paese per dimenticare ed essere dimenticato.
Poi l'incidente in fondo a una stiva durante una fase di scarico: una carrucola difettosa aveva ceduto e un carrello gli era piombato addosso. Era riuscito a saltare di lato per non prenderlo in pieno, ma il suo braccio sinistro era rimasto incastrato. Ore per liberarlo. Gli avevano salvato il braccio con due operazioni, ma i nervi della mano erano morti per sempre. Cosa se ne fa un armatore di un capo macchina con una mano sola? Niente. Era stato scaricato a terra nel porto di Bari come un attrezzo arrugginito e fuori uso. 
Una discreta buona uscita, una pensione sufficiente e i soldi della sua assicurazione gli avrebbero consentito di campare decentemente.
Aveva trovato un modesto monolocale ammobiliato; passava il tempo davanti alla TV e leggendo giornali e libri gialli. 
L'ultima porcata del destino gli aveva fatto leggere quel maledetto articolo nella pagina regionale della "Gazzetta del Mezzogiorno", e fatto vedere una fotografia su tre colonne: una bella ragazza radiosa in mezzo ai genitori sorridenti e orgogliosi della propria figlia.
Stava scritto tutto nell'articolo, che aveva letto e riletto un'infinità di volte. A.G., figlia del primo cittadino di una città molto vicina a Bari, aveva vinto un importante premio musicale internazionale in una competizione di giovani pianisti. Alla vincitrice, ai genitori e al corpo insegnante della scuola di musica "Gaetano Donizetti" le congratulazioni della Gazzetta.
La ragazza non l'aveva mai vista prima. Sembrava avere gli occhi chiari, non come quelli di sua madre, che erano neri come la notte e che lui ricordava benissimo, e nemmeno come quelli di suo padre, l'avvocato G., che così male lo aveva difeso al processo e che adesso era sindaco di una città importante.
Dunque se l'era sposata lui Elvezia. Ma che combinazione! Dunque l'aveva difeso così maldestramente per farlo chiudere in galera e soffiargli la donna.
Il desiderio di vendetta è un crampo che ti agguanta la pancia come il morso infuocato di un animale feroce. L'uomo non più giovane si sentì violentemente colpito negli intestini: Aveva la gola secca e sudava copiosamente. Doveva vendicarsi di quei due bastardi, ma più guardava quella foto di una famiglia felice, più sentiva che Elvezia e G. non dovevano morire, ma vivere invece con un dolore implacabile. Era la figlia che doveva ammazzargli.
Da una settimana non faceva altro che pensare dove e come far fuori quella ragazzina. Era il posto e l'ora che doveva scegliere, l'arma sapeva da chi procurarsela: un revolver Magnum 375 con canna prolungata e silenziatore, da trasportare in uno zainetto e da seppellire in mare a lavoro finito.
Il posto lo aveva trovato, a ridosso di un muretto un centinaio di passi dalla fermata d'autobus davanti alla scuola di musica "Gaetano Donizetti", in una piazza priva di ostacoli.
L'ora più adatta gli sembrava qualche minuto prima delle otto. La ragazza scendeva dal suo autobus e camminava sempre da sola, forse non aveva amiche oppure teneva la puzza sotto il naso dato il suo stato sociale.
Quella mattina l'uomo non più giovane voleva soltanto studiare l'angolo di tiro migliore, controllare alcuni dettagli e mettere insieme i particolari del suo piano, che riteneva perfetto. Colpire la ragazza pochi metri prima dell'ingresso nella sua scuola, mentre passava come sempre a ridosso di un muro. Poi allontanarsi camminando piano lungo la riva del mare.
Arrivato alla piazza si fermò a qualche metro dalla postazione che aveva già scelto. Di lì vedeva arrivare l'autobus. Non c'era anima viva a quell'ora.
Dall'autobus la ragazza non scese.
E questo adesso che vuole significare? Si chiese.
Niente: un'assenza dovuta a un raffreddore, forse. Questo lo avrebbe però costretto a tornare di nuovo a perdere altro tempo. 
Si allontanò immediatamente, corrucciato. Alcune centinaia di metri distante c'era una scalinata che portava ad una strada fatta di lastroni di cemento quasi al livello del mare. Era bagnata di salsedine ma non ci fece alcun caso; per meglio dire se ne accorse ma era un uomo di mare, abituato a camminare su tolde bagnate di salsedine.
Intuì il pericolo troppo tardi e scalciò con le gambe in alto quando gli mancò il terreno sotto i piedi, planando sul cemento col dorso. Un dolore assassino al fondo schiena e al braccio sinistro, quello offeso, che gli era servito a ben poco.
Provò a tirarsi in piedi, ma il dolore era troppo. Si mise carponi stringendo i denti per non urlare.
Una mano lo afferrò saldamente.
-Si è fatto molto male?
La ragazza non doveva avere più di 16 anni. Stava china sopra di lui, gli occhi a un palmo dai suoi, azzurri e trasparenti come l'acqua dei torrenti di montagna.
Ed era lei, la figlia della sua ex; l'aveva subito riconosciuta come quella che sorrideva nella foto sul giornale.
-Si appoggi a me, l'aiuto a rialzarsi.
-Ma lei non dovrebbe stare a scuola?
Gli era sfuggita e si morsicò la lingua.
-Oggi inizio un'ora dopo; manca un insegnante e ho pensato di farmi una passeggiata. Meglio no? Così l'ho potuta aiutare.
L'uomo non riusciva a dirle più niente. Teneva i suoi occhi fissi nell'infinita trasparenza di quelli della ragazza.
-Grazie, ce la faccio. Vada pure, altrimenti fa tardi.
Tornò a casa zoppicando, ma il dolore era quasi diminuito del tutto e il calore che sentiva sulla schiena gli indicava che tutto stava tornando in ordine.
Ma niente era più come prima.
Si distese sul letto cogli occhi al soffitto.
Non riusciva a strapparsi dalla mente l'immagine di un viso da adolescente, levigato come alabastro, e di due occhi azzurri e trasparenti come un cielo limpido di primo mattino.
Non pranzò, non cenò e di notte non dormì che  a strappi. All'alba aveva deciso: non poteva spegnere quello sguardo.
Il lavoro era finito, meglio nemmeno iniziato. Gli conveniva impaccare le sue cose e andarsene cercando di dimenticare tutto. Ma prima voleva dare a quella ragazza un'ultima occhiata, un addio.
Prese il primo autobus, che arrivò puntualissimo alle sette e quattro minuti. Una mezzora dopo scese alla fermata della scuola di musica, dove non era mai sceso, ma ormai non doveva più preoccuparsi di prendere precauzioni. Andò direttamente alla postazione scelta da tempo. Guardò l'orologio: ancora un paio di minuti poi l'avrebbe veduta, e sarebbe stata l'ultima volta.
Vide l'autobus arrivare e la ragazza già in piedi pronta per uscire.
Discese veloce. Indossava lo stesso vestitino a fiori del giorno prima, con un golfino bianco attillato, lo zainetto dietro la schiena.
L'uomo non più giovane la osservò sorridendo mentre saliva sul marciapiedi e si incamminava a ridosso del muro come era solita fare. Sembrava cercasse riparo da qualcuno.
L'uomo non più giovane celiando sollevò il braccio destro, strinse il pugno, alzò il pollice allungando l'indice. Mirò alla ragazza e fece "pum" con la bocca.
In quell'istante una fiammata immensa avviluppò la ragazza; poi l'orrenda esplosione, mentre lei, o quel che ne rimaneva, volava in alto, oltre il muro.
Un attimo di silenzio irreale, lungo quanto una vita, poi centinaia di rumori colmarono quel silenzio. Roba che cadeva tutto intorno: sassi, calcinacci, schegge di un ordigno misterioso, gente che accorreva urlando da ogni parte. Poi le prime sirene.
L'uomo non più giovane si mosse dalla sua postazione e si allontanò senza seguire una meta. Camminò a caso, un passo dopo l'altro e senza nemmeno accorgersene si ritrovò in casa dopo un tempo che gli sembrò infinito.
Rimase nella sua stanza ancora due settimane per non destare sospetti. Guardava tutti i programmi TV, che non parlavano d'altro. 
La ragazza si era chiamata Agnese e aveva avuti gli occhi di un angelo. Gli occhi di sua madre Maddalena e di sua sorella Giulia, gli occhi di tutte le donne della sua famiglia.
Arrestarono finalmente il colpevole, un esaltato che ce l'aveva col mondo.
Allora l'uomo non più giovane riempì delle sue cose lo zaino e scomparve.

martedì 5 giugno 2012

CINQUE BRANI SCELTI NON PROPRIO A CASO

8,3     La prima neve in alta montagna scende quando l'erba è tesa e aspetta, e nemmeno sembra smuoverla il vento, e la terra è secca e chiede di essere ricoperta da quella umida e gelida coltre. Chi c'è stato a metà ottobre, qualche volta anche prima, lo conosce quel senso di imminenza di un evento che magari è banale, sempre uguale, ma infinito. Il cielo si abbassa e manda le nuvole giù quasi a toccare il suolo, il colore dell'aria è grigio rosa e d'improvviso il silenzio diventa una voce assordante: alzi il viso e lo vedi il cielo ridotto in minuscoli coriandoli   che ti viene in faccia dondolando. Allora chiudi gli occhi, perché tutti lo fanno: si chiudono gli occhi e si tira fuori la punta della lingua e si assaggia. La prima neve ha un gusto speciale e un po' ti scotta. Una decina di secondi dopo, quando riapri gli occhi, se non stai attento non ti orienti più perché è già tutto bianco e i coriandoli si sono così infittiti che tu sei in mezzo alle nuvole e cammini a dieci metri da terra, ché tanto il rumore dei passi nemmeno lo senti più.
Io, profano proveniente da una lingua di terra protesa nel mare, conobbi la neve da una postazione militare sul Monte Mia a quota 1.024. Centinaia di metri sotto di noi scorreva il nastro azzurro intenso del Natisone, fiume vagabondo che prima segna il confine con la Slovenia e poi se ne va a spasso un po' da noi e un po' da loro. Nemmeno un'ora dopo si era trasformato in una fascia blu scura cucita da un sarto fantasioso sopra un mantello bianco.
Ce ne stavamo tutti fuori dalla baita, ufficiali, sottufficiali, graduati e uomini di truppa a lasciarci ingoiare da questo immane silenzio, a goderci l'immobilità della vita dimentichi del ragazzo che era rimasto dentro la baita e che rischiava adesso di morire. Un marmittone, una burba, un microbo del terzo settantotto, che manco arrivato nei suoi scarponi duri e gialli di fabbrica se ne saliva in coda a tutti lemme lemme, o almeno aveva provato a salire perché a causa della suola troppo nuova dei suoi scarponi e della beata incoscienza di chi lo aveva mollato solo laggiù in fondo alla fila, era caduto senza un grido giù da una scarpata facendo un salto di una quindicina di metri tra le rocce e si era fracassato le gambe. Nemmeno si lamentava e chissà quando ci saremmo accorti che mancava, se tra le tante cose di cui lo avevano caricato non avesse portato anche l'antenna telescopica della nostra radio.
E allora giù bestemmie perché la radio senza antenna non funziona, e dov'è quel microbo maledetto, quello scansafatiche imbranato, se l'è squagliata perché qui non ci sta più quel figlio di puttana. Ma finalmente qualcuno lo aveva visto il microbo maledetto della provincia di Belluno, e tiratelo su perdio! e fate attenzione ragazzi ché è tutto a pezzi. E non abbiamo nemmeno un infermiere, tanto a che serve un infermiere son tutti ragazzi di venti anni che scoppiano di salute. Dategli una boccia di vino rosso, ché si prenda una sbornia almeno. 
E dal Comando ordinano non lo muovete perché sta partendo la squadra soccorso, che il giorno dopo non è ancora arrivata, e allora cazzo! dov'è sta squadra soccorso? Arriva, fermi tutti e non lo muovete ordine del signor Colonnello Comandante perché stavolta qualcuno va sotto processo, ma questo qui ha più febbre di un mulo, e voi tenetelo al coperto, e tu vai a cagare.
Il microbo del terzo settantotto non morì. Ma io capii che la morte era un coriandolo di neve più leggero degli altri che cercava la lingua giusta dove andarsi a posare. Ho pensato che da quel momento non mi avrebbe fatto più paura; l'ho pensato fino a poco tempo fa, quando la morte si è portata via mia madre, che la lingua se la teneva dentro la bocca serrata fino allo spasimo.


9,1   Il giorno che mio padre morì frinivano le cicale sotto il sole, nascoste tra le foglie degli alberi di gelso. Cessarono di colpo un attimo prima che l'urlo di mia madre facesse alzare in volo tutti i colombi del nostro cortile.
Due giorni dopo in chiesa, seduto sul banco in prima fila accanto a mia madre più ingobbita del solito e vestita tutta di nero fin dentro l'anima, tendevo gli orecchi agli spifferi che venivano dai banchi dietro il nostro dalle pie comari e dai devotissimi amici del padre mio: gli è venuto un colpo secco; una febbre da cavallo gli ha fatto crepare un'arteria del collo e lui è morto affogato; macché gli è scoppiata una vena nel cervello ed è rimasto stecchito senza nemmeno dire un'Avemaria. Qualcuno ci avrà pure azzeccato, perché nessuno mi ha mai saputo spiegare come era morto mio padre.
Mi sono dovuto scansare tre volte, perché tre volte mia madre stava quasi per svenire e la dovevano portare fuori a braccia, ma poi tornava.
E quando il fumo dell'incenso era così denso che ci impediva di vedere la bara dissero che era finita la funzione funebre; allora tutte le donne uscirono e io con esse, perché ero troppo giovane per portare la bara con gli altri uomini, e perché dovevo sorreggere mia madre da bravo figlio.
Là fuori in semicerchio, sorrette ognuna da due robusti giovanotti, c'erano le corone di fiori. Le contai: undici corone, la maggior parte di fiori bianchi; il Comune, la Cassa di Risparmio, il Dopolavoro portuale, il Coro salesiano, l'Associazione Polisportiva e poi le altre in fondo che non riuscii a leggere, ma la prima di tutte, che mi sembrò la più grande, con rose rosse in mezzo ai fiori bianchi con scritto a caratteri d'oro sul nastro blu la moglie e i figli inconsolabili, quella era la nostra: la moglie era mia madre in gramaglie sorretta da tutti, e dei figli inconsolabili uno insieme ad amici e parenti sorreggeva sulle spalle la cassa del padre, l'altro ero io, che nessuno teneva in conto in quel momento.
Eppure dentro di me io stavo urlando.
Poi mentre camminavamo tutti dietro il carro funebre mi venne fatto di pensare che la vita era una cosa tanto buffa: finché arrivavamo al cimitero eravamo la moglie e i figli da consolare, ma dopo averlo lasciato là ce ne saremmo tornati a casa lei da vedova e noi due da orfani, che a nessuno sarebbe interessato se da consolare o meno.
Per mio padre undici corone, pensavo, ma tre settimane prima dall'alto di una finestra di casa mia avevo contato quarantasette corone per quel nuotatore di ventitré anni, che doveva partecipare a un'Olimpiade e che era morto annegato mentre salvava tre bambini. Un'embolia polmonare, dissero, perché gli avevano fatto subito l'autopsia dato che era stata una disgrazia.
Per mio padre non era prevista autopsia, perché era morto in poltrona mentre dormiva col giornale spalancato sulla pancia, non aveva salvato nessun bambino lui, ma ne aveva abbandonato uno che non si sarebbe ripreso più da quella mazzata in mezzo alla schiena.
Basta! È passata una vita ormai, una vita senza padre, appunto.


11,1  Immaginate una popolazione immobile, ferma di fronte a un paesaggio surreale: muri di case bianche senza finestre, senza porte (inabitate? inabitabili?), scale che partono da terra e portano fin contro un muro, fin quasi dentro un muro; scale ripidissime, come posticce e muri assolutamente bianchi , accecanti.
La gente è ferma, la gente è muta; niente auto, niente tram, niente moto né biciclette. Folla immobile e muta. Il suolo è incolore come una lastra di vetro poggiata sul nulla; il cielo è incolore come trasparente, come un contenitore immerso nel vuoto assoluto, immane capsula di vetro.

COLORATE IL CIELO

È uno striscione di panno bianco con le lettere tracciate da un esile gessetto rosso. Compare all'improvviso. Lo danno ai bambini, che lo sorreggano standosene fermi e zitti.
Stanno fermi e zitti e sorreggono lo striscione.
E gli alberi? All'apparenza come incartati con carta bianca. Forse anche le case, come empaquetages di Jaracheff Christo. E il cielo? Inesistente.
Sembra un palcoscenico a guardare bene, e quella popolazione immobile forse è fatta da figure di John Davies, se cercate ne troverete qualcuna che rassomiglia alla woman with a shopping cart di Duane Hanson. È possibile, non è sicuro, ma voi cercate ugualmente.
Se fosse un palcoscenico allora questa sarebbe una scena. Bene. È possibile in una scena simile mettere un letto d'ospedale in un angolo? Meglio al centro, con un uomo ferito sdraiato dentro, la gamba sollevata. È anche questa una figura di John Davies? È il protagonista di una commedia nuova nuova? Si può credere a una finzione scenica? È ciò che immagina la mente di J.M.?
Contate le persone, compresi i bambini che sorreggono lo striscione, perché per J.M. è ben chiaro che la memoria è individuale. Quindi: tante persone uguale tante memoria di uno stesso evento. È proprio quello di cui ha bisogno per appagare la sua presunzione. E pensare che forse all'inizio gli sarebbe bastato essere una persona normale per avere una vita come tutti gli altri. Gli bastava, perché non aspirava a essere un SUPER, ma poi hanno incominciato a eleggerlo super e adesso J.M. si trascina in questo deserto


13,2  OK! Vivere intensamente col blocco dello scrittore si può. Penso che potrebbe essere interessante per la gente comune provare a immaginare che si possa vivere intensamente col blocco dello scrittore, non credo però che potrebbe interessare a un avvocato, a un impiegato di concetto e nemmeno a un arrotino sapere cosa significa questa cosa.
Ma che cavolo è veramente il blocco dello scrittore? Io penso che sia lo stesso che per un chirurgo non riuscire più a mettere piede in sala operatoria, per un macellaio non poter più annusare una fetta di carne, per un muratore non riuscire a mescolare calce per mettere pietra su pietra. È come quando tutto sembra che ti si fermi accanto e che se ne resti fermo, mentre invece ti gira tutto intorno come fosse un carosello.
A me è successo una volta che stavo uscendo da un supermercato francese in Alsazia.
Vedo la porta e c'è scritto in grande "Sortie" e disegnata accanto una freccetta.
Sortie vuol dire uscita, Ausgang in tedesco, ok! La freccetta si dice fléche in francese, e in tedesco? Non mi viene su questa stupida parola, nemmeno se mi metto a pensare in versi o a colori.
E me ne sto lì immobile col mio carrello mezzo pieno davanti che non mi muovo e sto con gli occhi chiusi a pensare come diavolo si dice in tedesco 'sta freccia del cazzo. e qualcuno di quei compassionevoli benpensanti che non si fanno mai i cavoli loro sento che mi chiede (non lo vedo, non apro nemmeno gli occhi) scusi si sente male vuole che chiami qualcuno no grazie sto pensando non è niente sto pensando ho dimenticato una cosa ho dimenticato qualcosa forse non mi ricordo nemmeno che cosa, e intanto lui se ne va e io rimango piantato lì.
Ma è così importante adesso ricordare come i crucchi chiamano la freccia? Certo che è importante! È importantissimo, fondamentale, esiziale, porca troia! Non mi muovo di qui se non salta fuori questa freccia del cazzo, che è quella cosa che teneva in mano o ti tirava addosso, non so più bene, quel dio piccolo piccolo con le alucce figlio di Afrodite, come si chiamava pure lui, Amore, Eros, eccolo lì: Eros appunto, Liebe dicono i crucchi die Liebe und die Pfeil.
Sgrano gli occhi.
Cazzo! 
P F E I L!!! maledetta! Pfeil dicono i crucchi.
Me ne sono andato via con la gente che mi guardava e avranno pensato: "poveraccio, guarda cosa ha combinato la crisi dell'Euro".


15,1  Si può conoscere l'infinita società umana con tutte le sue miserie alzandosi prestissimo al mattino, prima dell'alba è il mio consiglio, andandosene poi a piedi per il centro di una qualsiasi città di almeno duecentomila abitanti.
Prima di tutto infilarsi nei vicoli, guardando in tutti i portoni, in tutte le insenature, gli angoli, i gomiti, ovunque sia possibile un riparo, specie se ci sono portici o comunque gallerie coperte. Si scopre il mondo dei senzatetto, il mondo dei pidocchi alla conquista del paradiso.
Nella città che conosco io c'è una stradina senza uscita, chiamata il vicolo cieco dei vagabondi. C'è di tutto e turatevi il naso prima di entrarvi, altrimenti vomitate addosso a quei poveracci. Ma attenzione: sono visibili fino alle cinque e mezza, perché alle sei sono spariti tutti. Dove diavolo vanno costoro? 
Spariscono e basta.

Spostiamoci adesso al centro, al crocicchio tra due vie principali, la Kaiser Strasse e la Karl Strasse, il cuore della città dopo le otto, ma adesso sono le sei passate da poco. Non bisogna avere fretta, basta essere ben coperti, un giubbotto di nappa leggera va sempre bene perché qui è umido e freddo a quest'ora fino a giugno inoltrato; avere un thermos con caffè bollente d'inverno o una limonata fresca d'estate e tanta pazienza.
Prima o poi escono fuori, dapprima tímorosi poi sempre più audaci, sicuri di sé, sprezzanti: è il popolo delle mezze tacche, dei reietti, degli storpi, dei nani, che saltabeccando, ruzzolando con andature a sghimbescio, correndo ognuno come la natura ingrata gli permette, in pochi minuti brulicano per strada come rivoli di pus e di acqua lercia.
Scompaiono come topi e non lasciano alcuna traccia del loro passaggio.

Poco prima delle sette le strade sono a disposizione dei normali, dei monotoni, dei senza difetti apparenti, della noia.
Nessuno sa come i nani gli storpi i reietti tornino a casa, attraverso quale strada, quale percorso, perché neanche a rimanerci ventiquattro ore su quell'incrocio non li si vedrà più tornare, ma solo poco dopo le sei di nuovo uscire e invadere per pochi minuti quel territorio proibito come figurine animate di un caricaturista sadico e un poco pazzo.
Sono andato una mattina dietro l'altra per tre giorni ad aspettarli e per un'ora per un minuto per un attimo sono stato uno di loro, un poco barbone, un poco storpio, un miserabile qualunque, e ho vissuto una pompata di sangue di vita strappata al nulla di chi niente chiede e niente dà, per poi tornarmene al mio ricovero ben protetto con tanta nostalgia per quel minuto rubato di pienezza umana.

Tratti da "RIMASTI A SUAREZ", romanzo di futura pubblicazione.

domenica 3 giugno 2012

ANCORA UNA

POTEVA  ESSERE  MIO  PADRE


Poteva essere mio padre
e parlava come lui; non lo avevo
mai visto prima.

"Ieri stavi seduto sul mio posto
dentro il tram", mi dice.
Non prendo mai il tram, ho la macchina
ma non mi va di contraddirlo.
"Mi dispiace", gli rispondo.
"E poi non fare quella faccia quando
fumi il mio sigaro". Adesso come
posso dirgli che non fumo più
da quattordici anni? "Mi manca
il respiro; per quello mi vengono
le facce", gli dico. "Compra 
un vestito rosso a tua moglie, contro
il malocchio", insiste. Lei odia il rosso
e indossa solo giacca e pantaloni. "Terrò
buono il consiglio". Sembra soddisfatto
e non rivolge più attenzione a me,
gratta la testa del suo cane, 
dietro le orecchie e ride.

Non ho mai dato retta a mio padre,
nemmeno una volta, povero vecchio;
mi sono rifatto col barbone
e mi sento un po' meglio stasera.