venerdì 23 novembre 2012

TATORT 12


ULTIMO  ATTO

1.

Non entro nei suoi sogni
per non turbarla,
per impedirle
di nascondermi il suo
segreto.
Aspetto il suo
risveglio
e intanto mi sposto
di lì, vado
nella stanza
del mio amico pittore,
nella casa di Gipi
per entrargli nel sonno
e chiedere a lui
un piccolo favore.
Ma Gipi questa sera
è ubriaco marcio:
giace vestito e calzato
nel suo letto stazzonato
e sporco,
nella sua testa ramingano
cagne azzurre e verdi
sotto cieli rossi,
infiniti;
a colori sogna
Gipi ogni volta
e dorme sodo per non
svegliarsi mai, 
per non uscire dal suo mondo
colorato e morbido
dove si sente
al sicuro.
Ma io ho urgenza di parlargli,
di svelargli il mio piano
e solo nel sonno
posso
parlare con lui.

Allora torno da Irene
e dal suo amante.
Dormono sempre
sono molto affaticati;
Irene ama violentemente
squassando i fianchi
del suo uomo
di turno.
Avevano fretta di spogliarsi
e copulare,
la vista del mio corpo
nudo e immobile
all'obitorio
deve averla eccitata
per una scopata macabra;
tutti i loro indumenti
hanno lanciato
lontano.
Dalla giacca di lui
è uscito un depliant:
è la pubblicità della
Galleria Lupert
di Gerard Lupert,
c'è la sua foto
in copertina.
Dunque è lui il gallerista
che acquista il maggior 
numero dei miei quadri
e li paga 
con bei soldoni.
Anche facile da capire
che Irene preferisca
tenere tutto sotto controllo,
danaro, potere e sesso,
a lei niente
deve sfuggire.

È quasi l'alba e Gerard
è sveglio.
Guarda
il chiarore del giorno
filtrare attraverso
le tapparelle.
Ora lui la sveglia 
con due carezze,
ma Irene
scosta la sua mano.
In un attimo è in piedi
in piena azione.
-Che succede se il cretino
 ricomincia a dipingere
 la sua merda?
Gli chiede.
-Succede che il mercato
 gli si rivolta contro
 e tutte le sue opere 
 ancora invendute che stanno
 in galleria
 sono buone per il fuoco,
 questo succede.
-Quanti quadri hai di lui?
-Più di duecento;
 adesso almeno sei milioni
 di marchi il valore,
 fra un mese zero.
 Quanti quadri ha ancora
 nell'atelier?
-Non meno
 di trenta, considerati
 anche gli incompiuti,
 quindi un altro milione.
-E poi i disegni, le prove
 d'artista, vedi
 quanto danaro è a rischio
 se non riesci a
 convincere
 quell'uomo a ragionare
 e a non fare
 l'eroe.
-Lo stupido,
 dillo pure chiaramente.
Irene si è accesa 
una sigaretta
e fuma nervosamente
e nervosamente
si sposta nella stanza
seminuda
e furibonda.
Si ferma, lo guarda, sbuffa
il fumo verso l'alto.
-E se morisse?
Gli chiede e aspetta
una risposta.
-Tutto il valore
 si raddoppia, come sempre
 succede quando
 un artista muore e finisce
 di produrre.
 Se si ha l'accortezza
 nell'immettere
 le sue opere lentamente
 sul mercato
 e si aspetta qualche anno
 si può quasi arrivare
 a triplicarne
 il valore.

Adesso ho ascoltato
a sufficienza;
adesso torno da Gipi
e spero che dorma ancora.


2.

Ringraziando il cielo
Gipi dorme,
la sbornia deve essergli
scemata, ma adesso
sta già impegnato
dentro sogni promiscui
e si dibatte
con ricordi d'infanzia
e coi rimbrotti che
gli rivolge la vita
alla quale lui intende ribellarsi.
Appare una barca
con dei ragazzi addormentati
a bordo. "Volevamo andare
in Africa a conoscere
il mondo e genti
nuove", mormora nel sogno.
Cerco di entrare
nei suoi sogni, mi faccio forza
ma lui chiude i percorsi,
abbandonandoli
appena io ci entro dentro;
prende nuove strade, 
sono strappi convulsi i suoi percorsi
come arrampicate sui monti
e vertiginose discese,
gli tengo dietro
a fatica.
Lui cerca suo padre
nel suo sogno
a singhiozzi;
vedo là in fondo un vecchio
che saluta,
si avvicina
e Gipi parla a lui
e ignora me.
"Non dirmi che sono colpevole",
grida Gipi a suo padre,
"hai colpa anche tu, papà.
Tu volevi essere libero
per i tuoi amici,
per il tuo gioco del pallone,
e soprattutto
per la tua macchina fotografica.
Te l'ho sempre vista a tracolla
la tua Leika.
Ci sei nato con quella al collo, papà?
E io solo a casa con quelle
due femmine guardiane dello zoo
con una sola scimmia parlante.
Io ci morivo dietro i vetri
della finestra a guardare
tutti gli altri ragazzini
che ruzzavano sozzi e sudati,
felici loro
quanto ero infelice io.
Di questo tu non ti accorgevi
nemmeno, e del bisogno
che io avevo di te.
Al bambino che ti veniva
incontro pieno d'ansia
alla sera
scarmigliavi i capelli,
solamente,
e sempre gli dicevi
ciao, bello di papà, hai fatto
i compiti?"

E io adesso guardo 
il vecchio che non saluta più
ma piange e va via.
Ora al suo posto 
posso entrare io
perché Gipi mi pare immobile
impietrito, 
con lo sguardo fisso
sul vecchio che scompare.

-Me lo ha dato Dio
 un padre così, dice Gipi.
-Dio non c'entra,
 Dio non sa tutto,
 Dio non sa niente e ogni cosa
 avviene senza che sia
 prefissata
 in uno schema divino, gli rispondo.
Ma perché gli dico questo?
Perché mi metto 
contro di lui
e lo irrito?
Io ho bisogno di Gipi,
lui può fare
quello che a me non è
concesso più.
-Lo cerchi Dio?
Mi sta chiedendo.
-Io vedo cento volte Dio
 in ogni frazione di momento,
 ma non lo cerco mai.
-Sai dirmi cosa pensi
 che potrebbe accadere
 domani?
Mi chiede ancora.
Non gli rispondo e aspetto
che parli lui,
mi sembra bene intenzionato.
-E se domani ti svegli
 con un orecchio di meno,
 o una gamba segata,
 o un occhio solo in mezzo 
 alla fronte come Polifemo, insomma
 se domani
 la tua permutazione quotidiana
 avrà prodotto un mostro visibile, diverso
 da quello invisibile
 che sta dentro,
 tu ci riusciresti a continuare
 indifferente
 a muoverti, a spostarti,
 a fare i tuoi bisogni,
 a comprare le tue cose
 in mezzo agli altri
 come se niente fosse successo?
-Sì, perché anche gli altri
 avranno avuto
 la loro brava permutazione
 quotidiana
 e si troveranno
 in qualche nuova dimensione
 più o meno come
 mostri oppure oggetti
 mostruosi visibili.
Gli rispondo perché
ho capito dove sta andando
a parare in modo innocuo.
-Ecco, giusto!
Mi fa tutto rallegrato.
-Vedi che tutto funziona
 come da sempre ha
 funzionato; non c'è quindi 
 bisogno di mettersi
 le mani nei capelli.
-Io sono stato ucciso
 l'altra sera, Gipi.
Gli dico.
-Sono io forse ad essere
 stato ucciso
 e tu sei il mio inquisitore.
-Io sono stato ucciso, Gipi
 non tu.
Gli ripeto.
-Menzogna, è una menzogna:
 la riconosco al fiuto.
 Vedi, mi sono venuti i capelli grigi
 per tutti gli anni passati
 a raccontar menzogne.
-Sei mai stato innamorato tu, Gipi?
Ride, si tiene la pancia,
devo averla detta grossa.
-Io ho voluto
 innamorarmi mille volte,
 perché di innamorarmi
 avevo bisogno per le
 mie fantasie:
 ogni nuova donna, nuove
 storie, nuovi sogni, nuove
 immagini.
 Per me fantasticare 
 è più importante che vivere.
 Eh sì! Mille volte 
 ho voluto innamorarmi
 ma non ho amato forse mai,
 nemmeno mia madre
 del tutto.
-Io sono già morto, Gipi
 e ho bisogno di te.
-Tu sei una troia, uomo.
 Non stai sopra
 e non stai sotto,
 non stai prima
 né stai dopo;
 non sei proprio mai
 esistito.
-Mi aiuti o no?
Gli chiedo con voce
concitata.
-Prendi il tuo Cristo
 a calci nel culo quanto ti pare,
 però dopo pagagli una birra
 poveraccio:
 rifacci pace fino alla
 prossima volta,
 chissà che non sia vero
 che fa ancora
 miracoli?
-Gipi, vai nel mio atelier,
 tu sai dove nascondo
 la chiave dell'ingresso.
 Dentro il cassetto
 del tavolo grande
 c'è un libretto con la fodera
 verde. Dentro ci sono
 appunti ed alcune
 poesie.
 Portati via il libretto
 verde, torna qui e telefona
 a Irene. Le leggerai l'ultima
 poesia.
-Cosa dice sta poesia?
-"Ho scritto il tuo nome
 sopra una nuvola
 che passava sulla nostra 
 casa, ma un vento veloce
 l'ha portata lontano.
 L'ho inseguita ma si era
 sciolta in pioggia
 sopra un bosco.
 Ho cercato il tuo nome
 tra gli alberi
 ma non ce l'ho più trovato:
 era scomparso e col tuo nome
 sei scomparsa tu".
-E che significa?
 È un codice segreto?
-No. È un inedito.
 Solo lei lo ha letto.
 Quando tu le dirai
 la poesia al telefono,
 aggiungerai che te
 l'ho data io 
 prima di morire, perché
 io sapevo che proprio lei
 voleva la mia morte
 e che anche tu
 conosci il movente.
-E sarebbe?
-Tanti, tanti soldi.
-E quando glielo avrò detto
 che succede?
-Niente. La tua missione
 è compiuta.
-E se vuole vedermi?
 Se mi chiede un appuntamento
 per parlare con me?
-Non ci andare, Gipi,
 non ci andare mai.
 Rimetti giù il telefono
 e non risponderle più.

Esco dal suo sogno
soddisfatto.
Quando riceverà la
comunicazione di Gipi
a Irene verranno i piedi freddi.


3.

Sono tornato sul tetto
della casa dei gerani.
Irene è vestita come sempre quando 
rimane in casa, ma gira
nervosa per tutto
l'appartamento,
mentre il suo gallerista
si prepara per uscire.
-Ricorda quel che ti ho detto.
Le dice.
Uscito lui Irene
non fa niente.
Accende una sigaretta
dietro l'altra,
gira per le stanze,
si siede, si rialza,
è nervosissima,
come quando
è indecisa.

Io tutto il tempo resto
sospeso, coi piedi
verso il cielo
e il tetto
della casa dei gerani
a qualche metro 
sopra la testa.
La vedo attraverso
le tegole e le
strutture dei pavimenti
nella sua stanza
che fuma
una sigaretta
dietro l'altra.

Fino a tarda sera
quando riceve
una chiamata
sul suo telefono.
Ascolta muta,
assorta,
non risponde; 
riattacca il telefono.
Era Gipi,
ne sono sicuro.
Non le avrà per caso
dato un appuntamento?
Troppo breve il tempo
per leggerle la mia poesia.
Non sarà mica matto
a incontrarla,
dopo che mi sono
sgolato per raccomandargli
di non farlo per nessuna ragione.
Mi sposto da lui:
non c'è, è già uscito
non posso rintracciarlo
così in fretta
e mi risposto da Irene.

Lei è già pronta:
ha indossato jeans, una delle mie
camicie e una cravatta; 
lo fa spesso, le piace
vestirsi da uomo.
Ci aggiunge un foulard di seta, 
va nell'armadio, 
apre dalla mia parte
e ne tira fuori il mio impermeabile 
beige, che le piace così tanto.
Mette sulla testa un cappello
a falde flosce
molto morbido,
e calza i suoi guanti
di pelle nera.
Va giù nel garage,
mette in moto il Mercedes 
e parte veloce.
Sembra conoscere bene la strada.
Va nella Eschersheimer Landstrasse
e pista veloce, dirigendosi
fuori città.
Io sono al suo fianco.
Entro nei suoi pensieri:
nulla,
freddo glaciale.

Avanti a noi l'auto
di Gipi.
Riconosco la targa.
Irene spegne le luci
lo segue al buio.
L'auto di Gipi sbanda,
va quasi fuori strada
dentro un fossato; 
finalmente si ferma.
Gipi esce di corsa
lasciando le luci accese
e la portiera spalancata.
Anche Irene ha fermato, 
a qualche metro di distanza.
Spegne il motore,
tira il freno a mano,
esce tranquilla,
si tira giù la falda del cappello,
alza il bavero dell'impermeabile
e si tira sul naso
il suo foulard di seta.
Cammina piano, sicura,
dietro Gipi che corre.
Gipi incespica appena entrato
in un bosco, cade in ginocchio, 
rimane quasi immobile
in quella posizione,
si deve essere
fatto male
e sembra respirare a fatica.
Io resto accanto a Irene.
Lei gli è ormai vicinissima,
ma Gipi non si volta
verso di lei,
come se non ci fosse.
Lei raccatta una pietra 
molto aguzza,
abbastanza pesante.
Gli sosta accanto come
un giustiziere
al condannato sul patibolo.
Poi solleva il braccio
e colpisce con la pietra
l'uomo prono alla testa,
una, due, tre volte,
finché l'uomo precipita
a terra
lordo di sangue.

Addosso gli sta Irene
la pietra lercia di sangue
ancora in mano:
aspetta da quelle membra
rattrappite
una qualsiasi mossa per colpire
di nuovo, più forte ancora.
Sul collo lo tocca:
segno di vita non trova.
Getta
la pietra allora
e tutto intorno si guarda.
Sassi raccatta e rami secchi
per buttarglieli sopra,
per nasconderlo un po'.
Poi di un passo indietreggia
e di nuovo
tutto intorno si guarda
e se ne va,
sicura,
senza fretta,
lungo il sentiero,
lentamente
senza voltarsi mai indietro.

Una moto incontro ci viene
coi fari accesi, 
abbastanza veloce su per il sentiero.
Ma io non ho voglia di guardare
quello che fa Irene,
che si nasconde per non
farsi vedere,
e nemmeno guardare il giovanotto con
la giacca rossa di pelle, senza casco,
né la sua ragazza
che si appoggia
alla sua schiena
coi lunghi capelli liberi
nel vento.
Io voglio vedere se Gipi
è ancora vivo,
ma è morto,
assassinato.
Non capisco però: 
il suo cadavere è qui
disteso per terra
dentro il bosco,
ma lui dov'è?

Lo guardo da presso,
lo tocco, 
mi faccio forza
e lo giro.
Guardo quel volto sporco di sangue,
quegli occhi sbarrati
dall'orrore.
Lo guardo attentamente.
Ma questo non è Gipi,
non è il mio grande amico pittore.
Quel cadavere sporco di terriccio
e di sangue è il mio,
quello è il mio volto,
quello è il mio sguardo,
come la ripetizione
di una scena già vista,
anche i due ragazzi 
in motocicletta;
tutto come due sera fa.
Non capisco più niente,
Tutto è così confuso.


4.

-Stop!
 Buona la prima, migliore
 la seconda, ma come sospettavo
 non hai capito nulla.
È di nuovo accanto a me
colui che era apparso dopo il mio assassinio.
Ha un'espressione strana sul viso
tra l'incredulo e lo schifato.
-Ti do ragione,
gli rispondo;
 sono più confuso di quando
 ti ho chiesto di capire.
 Però perché questo morto
 sono di nuovo io?
 Dov'è Gipi, il mio migliore amico?
 Si è salvato?
Intanto sta arrivando
un vagabondo per saccheggiare
il cadavere e spogliarlo di tutto,
anche delle scarpe.
Ci spostiamo altrove,
accanto all'auto di Gipi
con la portiera ancora aperta.
-La riconosci?
Mi chiede il mio interlocutore.
-Certo, è l'Alfa Romeo di Gipi.
-E questo è esatto
 ma non come credi tu.
Mi prende per mano,
ci spostiamo nel mio atelier.
C'è silenzio assoluto.
Le luci sono spente
ma io vedo tutto
chiaramente.
-Qui sono le tue opere finite,
 ventotto, e le incompiute
 quattordici.
 Guarda in basso a destra
 nei tuoi quadri finiti.
 Cosa leggi?
-C'è la mia firma e la data.
-Leggi la firma, ti dico.
Guardo attentamente, 
leggo scritto in stampatello: GI-PI.
-Sono le iniziali del tuo nome,
 tu ti chiamavi Giorgio
 Pini e hai sempre
 controfirmato con quello
 pseudonimo, e con quello
 eri famoso nel mondo
 dell'arte.
-Ma io sono entrato
 nei sogni di Gipi, 
 nel suo atelier....
Mi interrompo perché 
adesso ricordo
la grossa sbronza che mi 
ero preso,
e poi i sogni di Gipi
erano i miei sogni...
......
la barca coi ragazzi....
erano i miei amici e volevamo
raggiungere l'Africa
per conoscere gli africani...
.....
e io discutevo con mio padre
che se ne andava in giro
con la sua Leika a tracolla
("ci sei nato con quella al collo, papà?)
e mi lasciava solo dentro
casa con mia madre e mia 
nonna come carceriere...
....
io ci morivo dietro i vetri
della finestra a guardare
tutti gli altri ragazzini
che ruzzavano sozzi e sudati,
felici loro
quanto ero infelice io....
....
-Perché dovevo morire 
 io ormai lo so, per i soldi dei
 quadri che valgono
 tre volte tanto ora che il pittore
 è morto; ma non capisco
 perché non sono fuggito 
 in quel bosco dopo essere caduto;
 perché ho aspettato le mazzate di Irene
 come un agnello sacrificale
 col capo prono?
-Proprio non ricordi?
-Ignoro cosa devo ricordare.
-Eri in un vicolo cieco: 
 non volevi più dipingere i quadri
 di Irene perché ti avvelenavano
 la vita e hai ricominciato
 a dipingere i tuoi quadri.
 Credevi di farcela, ma l'estro
 era andato perduto, e dopo
 tre settimane di febbrili tentativi
 inutili, hai capito che
 non ce l'avresti mai fatta.
-E allora?
-Allora hai deciso di ucciderti,
 "meglio morto che schiavo"
 lo hai scritto tu.
-Dove? Quando?
-Prendi quel rotolo di tela
 grezza. Si tratta di due tele arrotolate
 l'una nell'altra.
 Aprile, ci troverai un foglio,
 il tuo ultimo scritto.
Distendo le due tele 
e trovo il foglio.
Leggo.
"Ho deciso di togliermi la vita
perché sono alla fine come artista
e come uomo.
Meglio morto che schiavo.
Gipi".
-Stavi correndo verso il cavalcavia
per aspettare il treno diretto 
Francoforte-Monaco
e lasciarti travolgere 
e finire in bellezza,
ma la tua auto ha avuto
una panne.
Ti sei messo a correre a piedi
 perché avevi pochi minuti
 di tempo, ma sei inciampato.
 Hai maledetto la tua solita sfortuna
 ma poi hai visto quello 
 che credevi il sicario
 e lo hai atteso.
 Questo è tutto quanto tu volevi
 sapere, Gipi.
-Adesso che succede?
-Adesso ce ne andiamo di quà.
-Dove?
-Non chiedere dove, né come, né quando;
 in questa dimensione non c'è 
 passato né futuro, ma solo presente
 infinitamente, 
 e solo spazio, non luoghi.
-Che cosa sono io adesso?
-Altra domanda inutile.
 Comunque ti aiuto ancora:
 tu non eri, non sarai e non sei, 
 tu esisti.
-Posso chiederti qual'è 
 il tuo nome?
-Akram.
-Resteremo insieme per molto?
-Sempre: io sono il tuo accompagnatore.
 Adesso basta domande
 noi ce ne andiamo di qui.
Sono felice di stare con Akram,
è come se lo avessi sempre
avuto accanto.




F I N E


RINGRAZIAMENTI  E  DOMANDE


Ringrazio tutti coloro che hanno letto questo mio lavoro, tutti senza distinzione, anche quelli che si sono astenuti dal commentare, per la pazienza che hanno dimostrato nel leggere tutta sta roba. Vi sono debitore del vostro prezioso tempo.

Vorrei porre due domandine semplici, alle quali risponderete come al solito con estrema sincerità.

1. Vi è piaciuto oppure no?

2. Avete trovato interessante il finale?

3. Ritenete che possa tentare di cercare un editore, che me lo pubblichi? Non a pagamento è sottinteso.

Ancora grazie a voi, amici miei.



























lunedì 19 novembre 2012

TATORT 11


7

Adesso che so chi ha mandato
il sicario,
adesso che so
chi lo ha pagato,
entro
nei pensieri di Irene, 
per conoscere il suo segreto,
per sapere perché
quell'uomo dentro il bosco
è stato ucciso.

"Fidati di me,
 io sono la più buona."
Queste le parole di Irene quando mi chiede
di sposarla.
"Fidati di me,
 io ti aiuto più di ogni altra,
 io che frequento tanta gente bene,
 e tanti amici ho potenti e ricchi.
 Fidati di me, 
 così tanta gente ti conosce,
 la gente ricca, la gente buona, 
 la gente che conta.
 Fidati di me
 e tutti sono ai tuoi piedi."
Queste le mille parole buone
che ogni momento mi dice.

Cinquecento e più pagine di libro
posso scrivere se ho voglia
di parole che lei dice
ogni giorno
belle per me.
Parole belle, parole
ancora più belle, parole,
parole, parole, sempre più belle.
Parlare: con lei accanto non serve,
lei pensa per me.
Parole, pensieri, progetti,
idee nuove nuove,
niente è creato
ma tutto è trovato
bello e pronto
e preparato.
Nemmeno più la fatica
di alzarsi dal letto.
"Così è perfetto, così
 deve essere fatto:
 tu rimani nel letto
 che io mi trovo il soggetto
 della tua
 pittura nuova;
 tu risparmi energie
 per le mie sinergie,
 e nel frattempo io ti traccio
 il segno della sponda
 dalla quale tu parti per il tuo
 nuovo viaggio,
 e la strada ti faccio
 del successo
 sicuro, immediato,
 e che Dio sia lodato."

Questo Irene ripete ogni momento
e io mi sento
invogliato
a seguirla nel
suo intendimento
ché già tutto è cambiato:
il sistema di vita
quotidiana,
i cibi, i vestiti, gli amici,
gli ammiratori, i critici, i nemici
(anche questi bisogna
sceglierseli,
più raffinati, più eccentrici, di maggior
risonanza, lei dice e mi insegna:
"che molti nemici
 molto onore ti danno, non è
 vero, amor mio;
 solo pochi nemici, invece,
 ma ben selezionati,
 di rilievo, importanti, facoltosi,
 ti qualificano e valore ti danno,
 non so se mi hai capito, bello mio.")
Adesso anche l'orizzonte è cambiato
della visione artistica
(la mia? degli altri?
ma a chi interessa una risposta,
si hanno forse
certezze
in questo mondo?);
l'orizzonte pittorico
si è dunque spostato più in alto
e non è più lo stesso
che prima tenevo sott'occhio.

E allora tutto
di conseguenza
va cambiato:
vie le mie
vigorose
figure piene di muscoli,
di spigoli, di peli,
di macchie di colore opaco,
via, via per sempre,
abbandonate;
agili figure arrivano
adesso al posto loro
appena accennate, 
allungate
sulla superficie della
tela, e i colori
scelti in modo che si
incastrino tra loro,
surrealismo astratto si chiama
questa roba che faccio adesso.

"È di moda, tira molto,
 e come lo fai tu poi
 sarà un trionfo, fidati
 di me, tesoro mio."

Va cambiato anche il tratto,
la tecnica,
e allora niente più
dipingere con le
dita, con le
mani, ma soltanto con
finissimi pennelli di martora
che lei fa venire 
dall'Inghilterra;
e niente più pigmenti
di poco prezzo
per l'amor di Dio,
ma solo colori nei tubi sigillati
e di gran marca:
soltanto Lefranc & Bourgeois
e Winsor & Newton,
e per gli acrilici
unicamente Lascaux.

E non si tratta di frottole,
non sono i sogni
di una squilibrata
né parole al vento
le promesse di Irene, ma di colpo
il mio atelier
è un porto di mare
dove non si sciopera mai,
e tanta gente che va
e tanta gente che
viene, che non 
ho visto mai
prima di allora, e tutti
comprano
e discutono e danno
consigli
e ordinano nuovi quadri
e disegni; 
e giornalisti che fanno
la fila
per un'intervista
ben pagata, 
e fotografi che fanno
servizi
per rotocalchi alla moda
e riviste d'arte
e di
letteratura,
e intenditori giungono alla porta
e critici d'arte
con la puzza sotto
il naso,
e galleristi
che vogliono prenotare
esposizioni, e già
si fanno i piani di
retrospettive, 
e pingui collezionisti
che si litigano
anche gli abbozzi
e le prove
di colore
a suon di soldoni,
tutto, qualsiasi cosa, purché
sia firmato
e datato.

Nemmeno il mal di testa
a fare i conti
mi viene:
Irene incassa tutto,
e tutto
registra,
e tutto lei sa quel
che mi occorre,
nuovi vestiti
e camicie,
un cappotto di cammello,
un impermeabile chiaro,
scarpe italiane
e stivali, e stivaletti spagnoli,
e penne stilografiche d'oro
(la mia passione),
e orologi da polso di marca
(altra passione mia),
un Omega, un Bulowa, un Cartier,
un Rolex blu, un Baume & Mercier
e infine un
Vacheron Costantin
con la cassa di platino,
untrapiatto;
e un Maserati biturbo
a due porte,
amaranto metallizzato, 
col tridente placcato
in oro,
e sul cruscotto
le nostre due iniziali intrecciate
in oro bianco
con brillantini incastonati,
un unicum costruito
apposta per me.

Ma un prezzo s'ha da pagare,
ché niente ti viene regalato
in questo sputo del creato
e ogni giorno è pagato
il costo del successo, ogni giorno
la ricchezza io la pago
rinunciando
al mio libero arbitrio
che ho ormai rinnegato,
alla libertà di esprimere
quello che penso
che ho ormai abbandonato,
alla libertà 
di cambiare parere
di mutare il mestiere
la professione e l'arte.

E che mi resta da fare?

Solo lavorare in fretta io posso,
veloce sempre di più, 
preciso sempre di
più, conciso sempre di più, e sempre
di più efficiente,
questo solamente
mi è concesso di fare
ripetendo unicamente
sulla bianca tela distesa
le solite
diafane figure
stilizzate di questo
astratto surrealismo
così tanto di moda,
e ricercato
e così tanto acquistato
e pagato
e lodato da tutti,
ché solo da me è odiato
oramai.

Mi faccio schifo
ma tiro avanti
con questa
pittura moscia e
bastarda,
mezzo uomo e mezzo frocio,
mezzo donna e mezzo
troia, ecco cosa
mi sento, e mi faccio
schifo ma
tiro avanti;
e mi faccio schifo
per come
soggiaccio
al volere di Irene,
vorrei sputarmi in faccia
eppure mi adagio
nell'opulenza del
benessere
come una vecchia puttana.

E per soffrire un po' meno
e per riuscire
a guardarmi ancora senza
vergogna dentro
allo specchio
di nascosto da tutti
(da Irene soprattutto
 di nascosto, si capisce),
ricomincio a riempire
fogli e pezzi di tela
dei miei motivi antichi,
delle mie tozze
angolose figure,
dei miei volgari colori
rossi e verdi incrociati
come cazzotti negli occhi
su fondali neri o blu o
giallo cromo o rossi porporini
che messi insieme
sembrano esplosioni
dentro una pattumiera;
però io vivo la mia vita
perdio!
descrivo la carne
e il sangue mio,
la bellezza e le
brutture della mia anima,
senza menzogne
senza voler creare illusioni;
descrivo me stesso come sono
perdio! sporco del grasso,
del fango, del sudore e del marcio
della mia vita da povero disgraziato
sbattuto per il mondo
come un sughero
sopra un mare in tempesta.
E che Irene non scopra mai nulla,
Dio ce ne scampi.

Ma lei che fruga da per tutto
e tutto sempre trova
questa volta la annusa 
in fretta la sua nuova preda
nascosta dentro un pacchetto
legato con lo spago,
messo in fondo a un cassetto.
"Che roba è questa merda?
 Ti dà di volta il cervello?
 Vuoi il tuo suicidio? Oppure vuoi
 rovinare tutto il mio lavoro?
 Nessuno conosce niente
 di quello che facevi prima di
 incontrarmi,
 ché tutto io ho fatto sparire, 
 e che nessuno lo sappia mai.
 Io non ti
 permetterò di rovinare
 l'opera mia.
 Distruggi questa
 merda e ricomincia
 a lavorare come Dio comanda."
"A lavorare come Irene comanda
 volevi certo dire."
Sto a gambe larghe di fronte a lei
come il comandante di una
nave di fronte alla sua ciurma
ammutinata;
ma chi è qui
il ripristinatore dell'ordine
e chi è che si ribella?
"Torna al tuo posto, bastardo!
  non eri niente senza di me,
  ritorneresti un verme
  se io ti piantassi."
L'afferro per un braccio,
la butto fuori dall'atelier,
le sbatto
la porta sul muso e chiudo
a chiave dall'interno.
Lei mi urla e bestemmia dal di fuori,
io le urlo e bestemmio
dal di dentro,
ma oramai ho deciso:
finisco i suoi quadri,
quelli che sono ordinati
quasi tutti pagati
di già,
e nello stesso tempo
riprendo a dipingere 
i miei, poi si vedrà,
poi si decide tutto,
ma che dico, poi io decido tutto.
Così va a finire questa storia
e mi sembra di avere
ritrovato
la mia vita serena,
la mia vita felice.

Adesso aspetto di ascoltare
i pensieri di Irene
fino all'ultimo. Lei ancora dorme
con la testa appoggiata
sul pube del suo uomo nuovo, e io aspetto
per sapere perché
un uomo è morto la scorsa notte
dentro un bosco.