sabato 29 dicembre 2012

CENTOMILA EURO AR GIORNO

Lo scrivemo in dialetto romanesco perché me farebbe schifo in lingua taliana. Allora avete capito bene: un giudice der cazzo ha sentenziato, leggenno drento er libbro de la legge che cià lui che na certa signora, se fa pe dì, se becca er divorzio dar marito suo e je se porta via la bellezza de 100.000 cucuzze (ma so euri e non cucuzzette) ar giorno pe tutta la vita.
E che se deve da magnà sta pora stella?
E che se deve da comprà sta zoccolona?
E che ce deve da pagà sta gran fja de na mignottona?
Mo, cercamo da capisse: io nun so solidale cor marito, che me sta puro sur cazzo pe via de certe cosette che sapemo; dico che a lui je sta bene così s'impara a mparentasse co le troiette, che poi je se magneno er fritto co tutto er sugo.
Nun ce l'ho nemmeno co la zozzona che sti sordi se li pia e nun pensa a quanti rigazzini der terzo monno (e puro der seconno, e puro de casa nostra) si potrebbe fa da magnà e falli campà bene co tutti queli sordi, e nun falli morì piccoli piccoli cor capoccione e la panza sempre gonfia de gnente, ma nun lo so perché sti rigazzini che nun magneno cianno sempre er panzone. Nzomma sta femmina nun pensa a quanti poveracci oggi ne st'Italia rovinata nostra campeno co 500 euro ar mese, quanno che ce l'anno, nun ce pensa sta schifosa e se li pia, ma io dico che si uno ce nasce stronzo, stronzo ce more, e si una ce nasce zoccola zoccola resta.
Allora co chi te la pii? Voreste da sapè.
Io me la pio co quell'infame de giudice der cazzo che sta sentenza ha scritto.
Statime a sentì si ciò torto o ciò raggione:
io dico c'è la legge, e vabbè famo finta che è uguale pe tutti.
La legge dice che la donna che divorzia pe corpa der marito cià raggione e deve da mantené la vita che faceva prima ne li 22 anni der matrimonnio loro. Sarà puro vero, ma tu giudice de merda nun te rendi conto che sessanta mijoni de italiani te stanno a guardà e te stanno a sentì, e che tu stai a parlà a na nazzione de precari, de gente che s'arza la matina e nun sa se quanno torna a letto la sera ciavrà ancora quela monnezza ar mese, ma te pare che sta gente deve da sentì sta cifra che nun vedrebbe manco si campasse cinquecentanni?
Brutto fio de na gran mignotta, ma nun te tremava la mano quanno che la scrivevi sta cifra sur libbrone tuo?
Ma, dice lui, la legge dice che...e tu ficchetele ner culo la legge tua. Raggiona cor core e cor cervello: nisuno ariesce a spenne 100.000 euro ar giorno manco si parte a razzo a la matina a le cinque fino a mezzanotte, solo a comprà e poi fasse na magnata co l'amichi sua, nun ce la fa e doppo du giorni sta pe tera co la lengua de fora.
Puro stra strappona, che faceva la subbrette co quer cacini che poi s'è sposata e poi lui è diventato padrone de Mediasette e poi padrone de sta nazzione de mezze carzette, puro lei che ciaveva solo un ber culo e na bocca da pompini, puro lei dovrebbe da schifasse de pialli tutti sti sordi e facce npò de beneficenza, ma cor cazzo! lei se li tiè e se li magna e si fa mette drento la cassa d'oro quanno che more, li mortacci sua.
Ma quer giudice cacciatelo via e rifate la legge, signor Monti, che moi t'avevmo capito che nun aderi santo, ma puzzone come quelli che te stanno lì vicino. Mo che l'arivinci er posto de capoccia falla rifà sta legge,c he er monno sta a sbuzzasse da le risate a le spalle nostre.
Basta, nun parlo più me viè da piagne e io nun so un precario, ma so un poveraccio puro io, che 36 mijoni in un anno nun li guadagna nisuno, solo sta strappona, che a magara co quer giudice ce fa puro robba.

lunedì 24 dicembre 2012

ARRIVA NATALE

È una vecchia canzoncina, ripresa da Carosone tanti anni fa, ma che è di enorme attualità
"Mo arriva Natale,
nun tengo dinare,
m'accatto o jurnale
e me vado a cuccà".
Questo Natale sarà per tanti, tantissimi, troppi, un Natale di emergenza, fatto di patatine al forno e poche pietanze, che poi in fondo quello che distingue, distingueva o dovrebbe distinguere questo giorno sono le solenni abbuffate tutti in famiglia di una volta, quando si cominciava alle 21 della vigilia col "cenone", ci si ingozzava fin oltre la mezzanotte, per ricominciare con la colazione al mattino del giorno di festa e poi il pranzo, e poi via via fino a notte inoltrata con l'abbondantissima cena.
Un miracolo che i cessi nazionali non si occludessero, o almeno entrassero in sciopero per sfruttamento multiplo continuato.
Non credo che oggi si corra un pericolo simile, purtroppo.
Comunque io voglio illudermi che ognuno dei miei amici, i miei lettori e commentatori, e anche quelli che commentano solo sporadicamente, inclusi quelli che leggono e non commentano mai, abbiano un Natale sereno e felice, in cui dimentichino per un giorno il travaglio di questa nostra benedetta e sfortunata nazione, le corse a piedi per raggiungere il posto di lavoro dato che treni, autobus di linea e tram fanno scioperi un giorno sì e l'altro non si sa, la paura di scoprire che qualcosa di nuovo sia cambiato -in peggio- e che ci si trovi all'improvviso senza una fonte di guadagno certa, insomma dimentichino il maledetto ignoto quotidiano e possano concentrarsi su quel poco di buono che il Natale rappresenta: la pace sociale, la bontà degli uomini nei confronti dei loro simili, qualunque sia il colore della pelle, l'estrazione sociale, l'origine, la cultura, il credo religioso o il non credo, e l'appartenenza o meno a un partito politico.
Dimentichiamoci per un giorno che fra un po' di tempo saremo di nuovo l'un contro gli altri armato in una competizione che niente sembra avere di civile e di fraterno, non improntata al "favore per qualcuno", bensì a "l'odio contro qualcun altro", non per ma contro. Dimentichiamocene e stringiamoci la mano, anzi stringiamoci in un abbraccio collettivo, almeno noi che siamo soliti affrontarci sui nostri blog, nei commenti reciproci ai nostri post, che anche se qualche volta si litiga e scappano fuori incomprensioni sono sempre tenute nei limiti della decenza, tranne quei rari casi in cui il solito "cretino" impazza e cerca di imporsi e di prevaricare sugli altri.
E allora avanti tutta, miei prodi:
buon Natale Silvia;
buon Natale Maria Grazia;
buon Natale Claudia;
buon Natale Euridice;
buon Natale Lucietta;
buon Natale Mariella;
buon Natale Antares;
buon Natale Chiara;
buon Natale Chailrun;
buon Natale Miriam;
buon Natale Paola S.;
Buon Natale Nick;
Buon Natale Manuel;
buon Natale Rosario;
buon Natale Riccardo;
buon Natale Gattonero;
buon Natale Greg:
buon Natale Vincenzo D.;
buon Natale robydick;
buon Natale Giuseppe C.;
buon Natale Vittorio Ugo P.;
buon Natale Grande Marziano;
buon Natale a tutti quelli che io abbia sciaguratamente dimenticato;
e infine buon Natale anche a te, Vincenzo Iacoponi, che in questi giorni stai cercando di recuperare il senso del Natale, ti auguro di riuscirci.
Ci si risente gente
buone feste, ma per il nuovo anno scriverò ancora. Questo era per il Natale, la festa che dovrebbe vederci tutti più buoni
Ciao a tutti
un grandissimo abbraccio
Enzo

martedì 18 dicembre 2012

DEUTSCHES BEGRÄBNIS EINES BABIES

L'avevano chiamata Karolin il 21 agosto quando era nata, ma l'avrebbe potuta chiamare Karamel sua madre, una donna di 42 anni al suo secondo figlio, e suo padre, un giovanottone di 27 anni, e metterla accanto a suo fratello Laurent, che c'era diventato matto per quella sorellina, così tanto attesa e inaspettatamente arrivata quando già non ci pensava più.
Cresceva vispa e gioconda, come dovrebbe essere ogni bambino su questo pianeta massacrato dai mercati, dai profittatori e dagli egoisti, ma lei che ne poteva sapere del letamaio dove le era capitato di finire? C'era capitata e ci stava benissimo, con le sue dosi di latte materno, con l'amore di tutti quelli che la guardavano vivere e crescere, con la speranza che quando fosse diventata adulta qualcosa finalmente in meglio ci sarebbe stato per tutti anche in questa terra teutonica, che non è più l'Eldorado di cinquanta anni fa.
Ma lei che ne poteva sapere? Ciucciava beatamente anche nel sonno e, appunto, dormiva come dovrebbe capitare ad ogni bambino in ogni continente del nostro pianeta, senza affanno, senza problemi, senza malattie. Almeno sembrava.
Ma qualcosa c'era di strano: ogni tanto un sobbalzo e questo capita a tanti, tantissimi lattanti soprattutto nel sonno e tutti dicono: ha sognato qualcosa che le ha messo paura. Ma cosa può mettere paura a chi ancora non la conosce sta paura? Ma poi ogni tanto una serie di respiri ravvicinati e reiterati, una specie di puf puf puf di Paperino alla rincorsa di Qui, Quo e Qua. Ma Karolin non rincorreva nessuno, probabilmente era affetta da qualcuna di quella malformazioni neonatali, che vanno a posto da sole dopo i primi tre o quattro mesi; lo aveva diagnosticato anche il pediatra dell'ospedale dove era nata, lo aveva confermato la pediatra che l'aveva in cura fin dalla prima settimana. Ma tutti i genitori sanno che i Babies sono in grave pericolo le prime 12 o 16 settimane, poi tutto passa.
Sapevo che era nata, perché mi ricordavo la mamma col pancione prima di partire per le mie vacanze, quando ero andato a salutare mia figlia. La signora abitava alla porta accanto ed era una donna piena di iniziative anche col trippone.
Poi al ritorno in Germania mia figlia ci aveva detto che era una bambina, come previsto, che pesava alla nascita quasi quattro chili e che era bellissima.
Di solito non mi interesso dei babies degli altri, a meno che non siano costoro ad invitarmi a dare un'occhiata al loro marmocchio. Lo faccio per cortesia, dico "bello, bellissimo, genitori fortunati" e intanto penso "tenetevi il piscione vostro, io ne ho avuto abbastanza dei miei". Questa volta, ai primi di dicembre, eravamo andati a passare una giornata da nostra figlia, complice il disastro alluvionale capitatoci in casa, ed è arrivata la signora della porta accanto insieme a Laurent (pronunciato alla francese Loràn), spingendo la carrozzina. "La volete vedere?". E tu come fai a dire di no, visto che lei si è così interessata della nostra sventurata situazione. E allora Laurent prende il fagottino e lo mette in braccio ad Anna Maria, che fa come ogni donna fa quando tiene fra le braccia un neonato, lo carezza piano piano e fa quei versi che solo le madri trovano nel loro repertorio. Poi Laurent la mette in braccio a me, a me che sono un orso, una specie di orco mangia bambini, per scherzo, ma mi piace fare grrrr ai miei nipoti, come l'ho fatto ai miei figli. Ma con Karolin non l'ho fatto: mi guardava con gli occhioni spalancati e sembrava chiedersi "Ma questo chi sarà mai?", uno sguardo così a tre mesi. E mi ha fatto tanta tenerezza e adesso penso che non avrebbe mai dovuto mettermela in braccio Laurent, perché l'ho sentita palpitare, lei che aveva solo una settimana da vivere.
È morta la mattina dell'otto dicembre, giorno della Madonna per chi ci crede. È morta nel sonno senza che ci sia stato niente da fare. Quando il Notarzt è arrivato e ha cercato di rianimarla era ancora calda, ma non ha più dato segni di vita, non ha reagito a tutti gli stimoli messi in atto dall'ambulanza speciale per piccoli e piccolissimi bambini attrezzata come una mini camera operatoria.
L'unica cosa che potrebbe a questo punto dare sollievo è il pensare che probabilmente, qualora fosse sopravvissuta, sarebbe rimasta cerebrolesa, dato il troppo tempo rimasta senza ossigeno.
Ieri c'è stato il funerale. C'era mezzo paese, tantissima gente, giovani e giovanissimi, gente che non tratteneva le lacrime, perché i bambini non devono non possono morire, i bambini devono vivere e basta.
La madre era la figlia del sindaco, anche questo conta, perché la conoscevano tutti. C'era anche la banda municipale che suonava musica sacra; c'era il coro della chiesa cattolica, c'eravamo tutti e c'era anche Karolin dentro una piccola "Sarge", una piccola bara di cedro. come si usa qui. 
Non c'era più posto nella piccola chiesa del cimitero di Maximiliansau, e quasi tutti stavamo fuori. E pioveva, pioveva come Dio la mandava, mentre aveva fatto tempo bello fino a un'ora prima. 
Sembrava che fosse stato fatto apposta, che qualcuno avesse voluto ordinare quella pioggia mesta e silenziosa.
E pensare che io salto sistematicamente ogni sepoltura, anche di alcuni amici miei, che conoscevo da anni; ma questa volta non potevo mancare, perché l'avevo tenuta in braccio due minuti e ne avevo sentito il calore e visto i suoi occhi che mi guardavano, non potevo fare a meno di essere lì, pioggia o non pioggia, e poi all'inferno tutto e tutti. Cosa conta incazzarsi se le cose vanno male, se a casa hai le pareti che trasudano acqua lercia, se devi andare a destra e a sinistra a casa dei tuoi figli ancora per chissà quanto tempo, cosa importa ora che un angelo bello come Karolin se n'è andato via in punta di piedi?

sabato 15 dicembre 2012

STRASBOURG CAPITALE DEL NATALE 2012

Strasburgo è una città fantastica, anche d'inverno.
Ci arrivo alle 16,45 che di questa stagione è praticamente notte e me la trovo davanti illuminata come un gigantesco albero di natale, ma non pacchianamente, anzi molto francesemente, se capite cosa intendo. Colori tra l'argento, e ci passa in ogni natale, l'azzurro, come un albero finto che per accorgerti che è finto devi andartelo a toccare con mano. e rosso come le bande colorate con tante stelline luminose appese in alto a mo' di sipario nelle strade principali; e poi una cascata di fasci di luci colorate che corrono paralleli al suolo, ma a forma di onda marina, che sollevasi ogni trenta metri, sostenuta da cavi praticamente invisibili, e dà all'insieme un effetto fantastico.
Tutto questo sopra le rotaie di quella che è la tranvia più moderna in Europa, con vetture che sembrano uscite fuori dallo studio di un prezioso e ricercato designer. 
Tutto questo nella Vielle Strasbourg, la città vecchia, che è molto ma molto preferibile ai palazzi sontuosi della città nuova, sorta intorno al Parlamento europeo, che secondo me è tanto anonima quanto incredibilmente piena di misteri l'altra.
Niente da fare, gli antichi ci hanno insegnato tante cose, che noi moderni abbiamo disatteso, in parole povere ce ne siamo fregati, per correre dietro a una modernità, che non credo dirà poi tanto ai posteri nei prossimi 500 anni, almeno non quanto quello di 500 anni addietro dice a noi, o a quelli tra noi che abbiano la sensibilità di cogliere certi valori in assoluto.
Ci arrivo per una autostrada, la A3 che poi diventa A4 e si dirama in tutte le direzioni della Francia, fino a Paris, fino ai Pirenée, che non consiglio a nessuno di percorrerla verso Strasbourg di venerdì dopo le 16. Se avete un idea globale di casino e di scorrimento lento venite sulla A3 per capire che non avevate ancora capito niente. Si procede a passo di lumaca -saresti veloce anche tu, Silvia, quando hai sonno e guidi alla chi se ne frega purché io arrivi a casa- ma bisogna stare attenti a destra sinistra sopra e sotto, come a Roma, come a Paris. Siamo a soli trenta chilometri dal suolo tedesco, ma siamo in Francia, e chi guida per queste strade è francioso, cioè ribelle per natura, latino, estroverso e disposto alla risata, merce rara in Teutonia, merce di scambio qui come in Italia -mica tutta, dico l'Italia degli italiani, esclusi i musoni della lega che continuano a parlare degli emigrati come di invasori e non hanno capito che saranno loro a ripopolare la nazione nostra e a produrre moneta per pagare le pensioni ai nostri figli-; qui si parla questa meravigliosa lingua sciolta e musicale, dove le erre vengono arrotate e i suoni escono dal naso, ma tu non lo capiresti il francese se uscisse diretto dalla bocca credimi, e insomma la gente sulle righe pedonali fa i salti come a Roma, come a Milano perché gli autisti non rispettano le strisce, ma se ne fregano, anzi le considerano come le posizioni di partenza delle 24 monoposto di un gran premio di formula uno, e allora i pedoni, che sono tantissimi, schizzano come piselli pressati tra pollice e indice passando col rosso, col verde, con l'arancione e qualche volta anche col blu. Una cosa favolosa, da guardare per dei minuti di fila. Ti fermi a un semaforo -ce ne sono a centinaia non passano duecento metri che ce n'è subito uno- e guardi sto spettacolo a costo zero, con gente che prende la rincorsa e a metà strada rincula di gran carriera perché ha sentito, più che veduto, il bolide in arrivo.
Però nessuno impreca e tutti ridono beati, come se fosse una gara gioiosa a chi vuole fare di te una frittata e chi vuole farti uno sberleffo e dirti che anche questa volta ti ha fregato ed è riuscito ad attraversare una strada.
Siamo andati io, Anna Maria, nostra nipote Cristina e Kim il suo ragazzo, che è francese bada bene, ma è uno tranquillo che non si incazza mai. Mi vedo costretto a farlo io per lui per mantenere alta la pressione del sangue, ma lo faccio volentieri, tanto a me non costa nulla, ho un allenamento settantennale e me la cavo niente male.
Siamo andati per visitare il marché de noel coi due puntini sulla e, ma qui sulla tastiera tedesca non li ho e quindi li scrivo senza e voi vi arrangiate. Il comune della città ha pensato bene di distribuire il mercato di natale in vari punti della città, dandone indicazioni sontuose a ogni angolo con cartelli luminosi. Qui leggi dove puoi andare per trovare quello che desideri vedere, o mangiare come nel caso di Cristina, che vuole non ho capito bene cosa, ma l'avrà prima che venga notte di sicuro.
Tutta la città vecchia è praticamente occupata da questo mercato e c'è tantissima gente che gira e compra e spende tanti soldi, beati loro, perché qui siamo in Francia, dove tutto è più caro che in Germania e poi siamo a Strasbourg dove tutto è caro come a Paris. 
Per fare un esempio: una bottiglia di Valpolicella Amarone del 2010, che in Germania costerebbe 18 euro, qui te la danno per 32,50. Però te la incartano con carta pregiata, che non ti costa niente.
Un paio di Timberland, che in Germania potrei comprare per 109 euro, qui le trovi a 195 euro. Una borsetta non firmata di pelle rossa, prezzo medio in Germania 19,90 euro, qui ti costerebbe 69,90 euro.
Un pasto in un ristorante tedesco in Germania ti costerebbe mediamente 20 euro a testa comprese le bevande, qui non ce la faresti con meno di 35 euro a testa vino escluso.
Insomma si ha l'impressione che i francesi guadagnino molto di più dei tedeschi. Col ciufolo: gli stipendi medi tedeschi sono molto più alti, ma non si capisce come questo sia possibile, eppure anche solo entrando in un supermercato vedi una differenza sostanziale di prezzi, molto più cari quelli francesi.
Mentre camminavamo lemme lemme per tutta sta zona del mercato di natale io ho fatto una scoperta e l'ho comunicata ad Anna Maria, che ancora non ci aveva fatto caso: tutte le donne, da ragazze sotto i venti a anzianotte oltre i cinquanta, hanno delle splendide gambe, e una notevole figura esile ed agile. Dico ad Anna Maria: "Guardale, se ne trovi una cicciona, col culone a due piazze; sono tutte slanciate e sottili, ben messe insomma."
Mi fa: "È l'alimentazione; guarda se vedi una bancarella che venda cibi grassi, di maiale insomma; da noi in Germania ce ne stanno decine in ogni angolo e tutte piene di avventori che si rimpinzano fino agli occhi".
Verissimo, i tedeschi mangiano malissimo, secondi solo agli americani degli U.S.A.
Qui abbiamo girato tutto il mercato di natale ed abbiamo trovato una quantità di postazioni dove mangiare crepes alla marmellata o alla nutella, ma nemmeno una bancarella di Würstel, nemmeno una e Cristina ci è rimasta male, perché lei voleva un Wienerwurst, un viennese lungo e gustoso, e me lo sarei pappato anche io. Invece ci siamo dovuti accontentare di un paio di crepes au compote de pommes e tirare avanti fino a tardi coi gatti in pancia.
Molti dolciumi, niente salumi e niente frittura.
Buona salute insomma.
Siamo rimasti in ultimo nella place de la cathedral, dove c'è quella fantastica costruzione gotica che è la cattedrale di Strasbourg. Loro l'hanno fotografata, io me la sono rimirata di notte, perché è altrettanto imponente che di giorno.
Ci siamo ripromessi di tornare in marzo o in aprile, di mattina e di girare tutto il giorno, magari andando anche a vedere dentro il Parlamento europeo, e visitando il Museo d'arte moderna e contemporanea, e di farci un giro completo col la nave nelle acque del fiume che attraversa tutta la città vecchia e nuova.
Siamo tornati a casa che era già mezzanotte. Un poco stanchi, ma sorridendo. Ci aveva messo allegria quella girata per una città antica che più moderna non si può.

mercoledì 12 dicembre 2012

CABALA OPPURE SORTE?

dodici   dodici   dodici
oppure anche scritto 
12   12   12
che fa un effetto migliore.
Capita una volta ogni cento anni.
Il 12 dicembre 1912 nasce Ima, cioè Immacolata, la madre del protagonista del mio romanzo "Martedì dopo la pioggia". In effetti nacque quel giorno mia zia Giulia, cui mi sono ispirato per costruire il personaggio di Ima. Zia Giulia era una bisbetica mai domata, nemmeno dopo morte scommetto. Ima era un tipo così.
Nascere in un giorno come questo è un po' una predestinazione, credo io; se non fai casino da mane a sera mi dici perché sei nato un dodici del dodici del dodici? Potevi farlo un sette del dieci dell'otto, no? Insomma la sorte ti ha scelto e tu incasineggi il mondo, lo fai diventare incazzoso e furente. Bello, mi piace.
Pensa te cosa succederà al tizio dell'acquario che nascerà il due febbraio duemiladuecentoventidue, in cifra che fa più effetto 2  2  2222!
Oppure colui il quale nascesse il quattro aprile quattromilaquattrocentoquarantaquattro, sempre in cifre 4 4 4444!
E chi se la sente di pensare cosa capiterà a quelli che dovessero nascere il nove settembre novemilanovecentonovantanove, cioè 9 9 9999?
Sai che bel casino.
Ma meglio di tutti capiterà a chi dovesse nascere il sei giugno seimilaseicentosessantasei, cioè a dire il 6 6 6666! Due volte il numero della Bestia.
Destinati a diventare tanti Hitler, sempre che se ne ricordino.
Io però oggi i numeri me li gioco al lotto e che Dio provveda, mi farebbero comodissimo adesso un po' di quattrini in più.
Ciao, bellissimi: andate piano con la macchina, perché queste date non mi piacciono molto. Tornate tutti a casa per questa sera allegri e riposati, mangiate poco e schiaffatevi dentro il letto e buonanotte.
Ciao.

martedì 4 dicembre 2012

QUARANTA PEZZI DA CINQUECENTO


QUARANTA PEZZI DA CINQUECENTO

Un anno fa, proprio di questi tempi, nella soffitta che ho usato per tanti anni come atelier ho distrutto l'ultimo mio quadro, un acrilico 150 x 150, che avevo dipinto qualche giorno prima in appena due ore.
Dice che si chiama arte gestuale quella che si ottiene con ampie pennellate ad apertura di braccia.
Un cielo blu, o qualcosa di blu su in alto, una fascia rossa terra di Siena bruciata a metà della tela, ancora fasce di azzurro e rosa a chiudere, giù in basso.
Si chiama arte gestuale. Non bisogna pensare, solo muovere il braccio lungo la tela. E basta.
L'ho fatto a pezzi. Perché mi faceva schifo.
Sentivo che quella era la fine di un amore tempestoso, mai completo, mai compreso tra me e la pittura, tra me e l'arte. Un amore durato quarantacinque anni.

Al contrario di tutte le relazioni umane che vanno a male, la fine di questa non mi ha dato amarezza, ma un senso di pace, un "grazie a Dio mi sono liberato di questo peso". Era diventata da anni una sofferenza, infatti. Non mi rendeva più felice. Dipingevo velocissimo, non vedevo l'ora di finirlo il quadro. Come quando non ami più una donna, o meglio quando non la desideri più ma pensi di amarla ancora in qualche modo e ci vai lo stesso a letto insieme, ma cerchi di finirla in fretta in modo che lei poi si addormenti, soprattutto perché non ti capiti qualche abbattimento di tensione, che faccia capire alla donna come stanno le cose. Non è bello che lei lo capisca, e poi non ti lascerebbe più in pace.
Con la pittura è stato diverso: lei non si è lamentata, non ha pianto; le tele inconsumate stanno tutte lì nella soffitta, appoggiate bianche e nude a una parete per quanto è lunga, perché sono tante e grandi. Difficile da svenderle così montate su telai, infatti quegli enormi formati non possono interessare nessuno; dunque occorrerà smontarle e arrotolarle insieme per tentare di sbolognarle sotto costo a qualche pittorello dilettante.
Bene! Chiuso, finito, morto e sepolto. Ma perché tutto a un tratto? Perché da anni mi ripetevo, pasticciavo e ci giravo intorno. Non c'è niente di più triste di un artista alla frutta, peggio al digestivo. Ricordo gli ultimi trenta o quaranta quadri di Picasso, che disperazione! La caricatura di sé stesso. Tranne l'ultimo, intitolato postumo "femme nue couchée et tête", un vecchio dipinto del 25 maggio 1972, che Picasso aveva per circa la metà spalmato di bianco il 7 aprile 1973 per finirlo l'indomani, ma al mattino morì.
Solo perché incompleto è così bello e tragico.
I miei ultimi trenta o quaranta quadri mi fanno schifo. Li tengo arrotolati in soffitta; li ho staccati dai telai per non guardarli.
Ecco perché ho smesso e mi sono subito sentito bene, migliorato, liberato.

Benissimo, ho pensato; adesso smonto tutto e affitto la soffitta a ore a questi gruppi rock di giovani scassacazzi, che vogliono fare musica e hanno bisogno di provare le cose loro in un ambiente ampio e insonorizzato, e la mia soffitta è ampia e insonorizzata.
Mi è sembrata una buona idea, così mi sono messo subito al lavoro per ripulire tutto il sudiciume di anni di schizzi di colore, di colle e di soventi; e poi creare lo spazio necessario agli scassacazzi.
Mentre mi trovavo inzaccherato e lercio, fetente di sudore, sentii salire sull'ultima rampa di scale, che porta solamente alla mia soffitta, qualcuno che picchiettava sui gradini con due piedini leggeri sospesi su altissimi tacchi a spillo (si sente, si sente, e come si sente).
Cristo! Ho pensato; arriva una bellissima e io puzzo.
Ne ho atteso l'ingresso spavaldo immaginandomela come non poteva che essere: altissima, biondissima, bellissima, coscia infinita, bocca carnosa e lasciva.
Cinque o sei scalini prima della porta me ne è arrivato il profumo: Chanel numero 5, vuoi mettere!
No ha bussato, ha aperto e regalmente è entrata: una stupenda femmina di Labrador dal manto bianco a pelo raso, muso lungo e intelligente, con al guinzaglio di vernice rossa una donna, che certamente era bellissima, ma piccola, bruna e cinese.
Andò in ogni angolo, seguendo il suo cane. Guardò compiaciuta le grandi tele già pronte appoggiate alla parete di fondo.
-Mi occorrono alcuni quadri -disse, tirando a sé il Labrador.
Chi lo avrebbe mai detto che avrei venduto un quadro proprio adesso, pensai.
-Ho parecchia roba qui; se mi dice le sue preferenze, che so, figure, nature morte, paesaggi -le dissi avvicinandomi alla grande scaffalatura di legno che occupava tutta una parete, dove tenevo i quadri finiti ed asciugati.
-No, no -mi interruppe- niente roba vecchia. Io voglio quattro quadri nuovi, che lei dipingerà per me.
E poiché ero rimasto a guardarla a bocca aperta, continuò spiegandomi le sue intenzioni.
-Lei mi fa quattro ritratti per la mia nuova casa di campagna. D'accordo?
Provai ad evitarmi quel tormento.
-Non è possibile.
-Cosa non è possibile? Glieli pagherò bene i suoi quadri.
-Non è una questione di soldi; io non dipingo più, signora.
-È questo che non è possibile: un pittore non smette mai di dipingere; solo quando è morto smette.
Come cavolo facevo a spiegarle che mi sentivo arrivare la merda fino alle orecchie quando prendevo un pennello in mano?
-Ho dei problemi...personali, e poi non sono un ritrattista...non ho tempo per le pose...né la pazienza. Se li immagina io e lei chiusi qui dentro a posare per settimane, per trovare le giuste espressioni del viso...no, no signora, rifiuto. Negativo.
-Io non vengo qui a posare, come dice lei, nemmeno per un minuto.
Aprì la sua borsa e ne estrasse un pacco di foto formato 18 x 13.
-Due quadri li voglio col mio cane, come queste due foto; gli altri due da sola, a figura intera, in piedi naturalmente, e qui può trovare tutte le espressioni del mio viso, quando rido, quando sono pensierosa, quando sono ironica, quando sono sorniona, tutte. Scelga lei.
-Naturalismo assoluto, copie fotografiche, insomma. Un delirio! -esclamai.
-Non esattamente copie fotografiche -rispose.
Tirò fuori dalla borsa un libretto illustrato e me lo porse. Lessi il titolo:"Gustav Klimt, die Wiener Secession und der Jugendstil". Oh Dio! Pensai. Che vuole questa da me? Odio il Liberty.
Come se mi avesse letto nel pensiero la cinese aggiunse:
-Sono molto amica di Olga Borg e frequento il suo bel locale il "Lord Pub". Ho visto lì appesi i due quadri che lei ha dipinto su commissione per Olga. Bellissimi. I miei quattro li voglio proprio così.
Ricordavo benissimo quei due quadri e la fatica che mi erano costati. Più che altro erano un assemblaggio di elementi presi da quadri di Klimt, spudoratamente copiati. Un orrore; ma Olga me li aveva pagati tremila marchi l'uno e io in quel momento avevo uno schifoso bisogno di soldi.
-Si è trattato di due unicum -obiettai- nel senso che non ne avevo mai fatti e mai ne rifarò.
Fece un sorrisetto beffardo.
-Le darò cinquemila euro per quadro. Fanno ventimila euro. Non si trovano per terra tutti 'sti soldi.
La guardavo in silenzio. Non sapevo che dire, ma mi sentivo tanto triste.
-Bene, ci siamo capiti. Grandi come quelle tele appoggiate al muro, mi raccomando. Quando li avrà finiti me li porterà a questo indirizzo -concluse lasciandomi un biglietto da visita.
Uscì come era entrata, preceduta dal suo meraviglioso cane. Quando il ticchettio dei suoi tacchi a spillo si fu perduto sedetti sopra una sedia per riprendere fiato. Per lo meno non dovevo smontare tutte quelle tele.

La prima cosa razionale che feci fu telefonare a Olga. Mi attaccò un bottone di mezzora, ma alla fine sapevo quel che mi interessava.
Liù, nome vero o d'arte poco importa, non era cinese, ma nata a Kyoto, per cui giapponese; era sposata con un magnate dell'edilizia nel mondo che conta, ricco da crepare, trentacinque anni più vecchio di lei, che la ricopriva di regali. Ogni desiderio di Liù era un ordine, per cui possedeva sette cani di razza, più di duecento quadri d'autore. Le ville, gli appartamenti e i gioielli non li contava ormai più.
-Ventimila euro? Li hai già in tasca. Piantala di lamentarti e dipingile 'sti quadri perché ti stai scavando un pozzo di petrolio in casa. Tu non hai idea di quanti soldi può buttare in un giorno. Datti da fare, bello!
Ottimo consiglio: sui soldi non si sputa, anche a costo di lavorare con la porta del cesso aperta per andare a vomitare ogni volta che mi sarebbe venuto su. Ma mi sentivo una gran puttana.

La seconda cosa razionale fu di recarmi al Teatro di Stato dove avevo lavorato per dieci anni come pittore di scena, e dove contavo ancora tanti amici, a cominciare dal capo deposito. Fu lui a fornirmi a costo zero tutta una serie di colle e pigmenti d'oro, d'argento e di bronzo indispensabili per quello schifo di pittura piena di arzigogoli. Se avessi dovuto comprarli in un negozio d'arte in quella quantità mi sarebbero costati un occhio della testa. Ottenni perfino quattro dosi da mezzo litro di lacca essiccante: un attimo per spruzzarla e due ore dopo tutto asciugato e pronto per la consegna.
Adesso dovevo scegliere le foto e non fu una gran fatica: la tipa di Kyoto era fotogenica e per niente difficile da ritrarre. Una foto poi ha i suoi vantaggi: quando l'hai fermata sopra una superficie con due puntine da disegno non si muove come una modella in carne e ossa, puoi tenerla lì tutto il tempo che occorre, perché una foto non beve, non mangia, non piscia e non deve dormire.
Per i soggetti imitai -mi vergogno come un ladro a scrivere copiai- i tanti quadri in cui Gustav ritrasse la sua amante, quella Emile Flöge che a Vienna in quei tempi era una specie di Donatella Versace. Aveva un salone di alta moda e una figura splendida.
Tre settimane dopo allineai i quattro quadri 180 x 120 lungo una parete in piena luce. Li osservai a lungo: poi mi diedi una pacca sopra una spalla. Ottimo lavoro, perdio! E non ero mai dovuto correre al cesso per vomitare, come temevo. Un successone!

Affittai un furgone Mercedes, vi caricai dentro due gabbie fatte di tavole di legno incrociate, che lasciavano libero uno spazio minimo dove le tele, due per gabbia, si andavano a incastrare. Un lavoretto da professionisti. Mi misi al volante e partii, non prima di aver preavvisato il mio arrivo con una e-mail.
Il cancello che dava sulla strada si spalancò davanti al muso del Mercedes, dovetti solo scalare in seconda.
Davanti all'ingresso della villa mi aspettavano due uomini aitanti in tuta grigia: li battezzai giardinieri, ma va a sapere quali fossero le loro mansioni. Portarono via gabbie e tutto.
Mi venne incontro una signora ancora giovane e molto elegante con un grande sorriso stampato sulla faccia.
-Mi chiamo Ursula Pfefferle; sono la segretaria di madame Song.
Senza neanche stringermi la mano mi consegnò una busta.
-Questo è il suo onorario. Se vuole controllare.
Contai quaranta pezzi da cinquecento. Era quanto pattuito.
-Tutto in ordine? -chiese Ursula Pfefferle- Allora buona giornata.
-Non devo firmarle una ricevuta?
-No. Buongiorno.
Se ne andò, piantandomi nell'atrio.
Dopo un po' viaggiavo verso il parcheggio della ditta dove avevo affittato il furgone, e mi sentivo straordinariamente allegro. Pensavo al pozzo di petrolio che avevo scavato nella mia soffitta.

Nei dieci mesi successivi, però, non ho ricevuto nessuna visita da parte di madame Song con o senza Labrador, né telefonate, né e-mail. Silenzio polare.
Non ho nemmeno tentato di telefonare a Olga per sapere quel che combinava la sua amica. Devo confessare che ogni mattina accendendo il PC ho cercato nella posta elettronica in arrivo che uscisse fuori in fondo in neretto il nome di Liù Song. Niente.
Ieri pomeriggio, per caso (bugia, bugia) sono passato davanti alla cancellata d'ingresso di Villa Song. Ne usciva in quel momento un camion di una ditta di traslochi. Il cancello automatico rimaneva aperto, allora ho imboccato il vialetto. C'erano altri uomini aitanti in tuta grigia, che spostavano casse.
-Traslochiamo -mi ha detto il più loquace- la signora è andata via da più di un mese.
Volevo chiedere degli oltre duecento quadri; volevo anche chiedere dei miei quattro quadri, ma io non sono così sfacciato, e poi le opere d'arte si trasportano sempre per prime. Cosa ne poteva sapere quell'operaio?
Ho percorso tutta la facciata a piccoli passi e proprio dietro l'angolo c'era un grosso contenitore, che nei traslochi serve sempre per ammucchiare immondizie, stracci e cose che si vuole distruggere, che non servono a nulla, che nessuno vuole più.
Mi sono alzato sulla punta dei piedi per guardarvi dentro e li ho visti: distrutti, a pezzi, come il mio acrilico 150 x 150 di pittura gestuale. Tra i pezzi dei telai e delle tele strapazzate usciva fuori il muso di un Labrador che guardava in alto verso il viso della padrona, il viso di Liù. Ma qualcuno aveva tagliato via quel pezzo e di Liù si vedeva solo una mano, che reggeva un guinzaglio di vernice rossa.
Sono tornato rapidamente alla mia auto e me ne sono andato. Mi sentivo furioso e mortalmente addolorato, come se mi avessero ammazzato il mio miglior amico.
Ho guidato fino a notte, senza meta; poi sono ritornato a casa e mi sono infilato sotto le coperte senza toccare cibo, perché avevo lo stomaco chiuso.
Dopo un po' per fortuna sono crollato nel sonno.

sabato 1 dicembre 2012

PROMESSA FINORA NON ANCORA POTUTA MANTENERE

Quando si promette qualcosa la si deve mantenere, anche in mezzo a traversie non prenotate. Ricordo di avervi anticipato che avrei trascritto ancora un pezzo che avevo tolto dal Tatort originale per inserirlo in una raccolta di poesie, che ho appena pubblicato con la GDS "Te ne andrai domani ".
La poesia l'ho intitolata "Maggio 1971"; qualcuno di voi la conosce già, ma era un'estrapolazione da Tatort. Si trova alla fine di Tatort 3, là dove dice:
"È la fine di maggio  del 1971,
nemmeno un cane a salutarmi quando parto."

Incominciava lì, anzi continuava così:


In quella notte
non sa ancora di giugno
l'aria che respiro acida e molle
come primo latte di donna;
sa di fieno,
di vita recisa,
sa di frumento marcio, sa di terra
esausta che ha partorito da poco
la sua ultima creatura.
È una nottata 
triste:
nebbia fitta e a tratti vento, teso e basso.
La FIAT va piano:
il guidatore è stanco, non conosce la strada.

Se adesso hai voglia di  controllare
vedi la nebbia
ferma come un muro
intonacato,
tirato giù tra cielo e terra.
Attraverso il finestrino aperto
assaporo e inghiotto le mutevoli essenze
di questa terra che non è la mia.
Qui non ti senti
sulla punta
della lingua il crudo
zampillo della salsedine,
ma il grasso acido
distillato dai prati
incurvati dalla nebbia.
Non ti spacca la faccia
il libeccio,
duro come un coltello,
mareggiante,
malandrino e carogna,
che ti mitraglia a raffica, ti brucia,
ti molla e ti riassale
quando non ci pensi più,
che ti si avvolge intorno,
e tu diventi allora
tutt'uno col vento.
Per me,
creatura nata tra scogli marini,
dove la notte è tiepida anche d'inverno,
il vento è un elemento
del mio sangue
dentro le vene;
corpo e spirito di vento
hanno diviso a spicchi la mia vita
di stagione in stagione.
Che questo mi mancherà
ora già so.

La macchina va sempre più lentamente.
Il guidatore è stanco,
stanco di eterna fatica
della sua intera razza.
Lui poi che viene da Bisceglie
ha quasi il doppio della nostra strada
dietro la schiena.
Nessuno degli altri quattro uomini
nell'auto si offre al cambio
di guida.
Passeggeri esausti, viandanti muti,
masticano il fiele amaro
di una stanchezza sconfinata,
accumulata in secoli di fatiche sprecate,
mal pagate,
disconosciute.

"Hai letto Francoforte sui cartelli?"
mi chiede all'improvviso.
"No. Forse abbiamo sbagliato."
"Quelle luci che sono?"
"Stoccarda, credo. Di sicuro non so.
Ma prima ho letto un cartello:
c'era scritto Stoccarda 29 km.
Dovrebbe essere questa."
"Ma Stoccarda dov'è?
Prima o dopo Francoforte?"
"Io penso prima. Tu però
al prossimo distributore di benzina
fermati. È meglio chiedere
che camminare alla cieca"
"Ma è così piccola sta Francoforte
che non la mettono
nemmeno sui cartelli!"
È la prima conversazione
dopo sei ore.
L'ultima volta al Caffè italiano
al Passo del Brennero.
Mi chiede da dove vengo;
se sono sposato;
se ho già un lavoro lassù.
Neanche come mi chiamo
mi chiede.
No. Non ho un lavoro, ma solo
un indirizzo con un nome:
un amico di un amico
abita
a Neu Isenburg, Lindenstrasse mi pare.
Non ho un lavoro, né una casa, né una famiglia
ormai più. I volti di mia madre
e di mio padre già fatti trasparenti,
e sabbia dentro il cuore
non più sangue.

La notte sembra non aver mai fine;
attraverso la nebbia adesso filtra
qualche luce giallo arancione.
Si ferma: scende, chiede qualcosa.
Molto gesticolano lui e il suo
interlocutore,
come mulini olandesi.
Ritorna; si riparte.

"Che ti ha detto?"
"Non ho capito granché. Una sola
parola però è chiara: geradeaus."
"E che vuol dire?"
"Sempre avanti, dritto."

Così, geradeaus! Ormai che importa,
questa notte non potrei mai dormire.
Voglio vedere che farò domani con le 1500
lire che ho in saccoccia. Tanto
la vita è stata
finora una roulette, e la pallina
sempre al posto sbagliato.
Mi distendo; provo a rilassarmi,
a rileggere nella memoria per capire
il perché sono nato perdente, se è vero che è così;
sennò cos'è che c'è di guasto,
di insanabile;
e l'idea che ho di me
mi scivola dal cervello alla gola,
e poi giù, giù fino agli intestini,
e poi di nuovo su;
e più cerco di trattenerla
più si rende
impalpabile.

"Bevi questo, è vino buono."

Mi caccia in mano un bottiglione scuro
mezzo vuoto. Come un martello
nello stomaco, come il crollo
di un muro sul selciato.
Ride. Mi vede dalla faccia
che non riesco a ingozzare
il suo vinaccio schifoso.

"Se hai fame mangia queste,
e poi vedrai che pure il vino è buono."

Olive nere secche.
Umide e piene di croste, 
scivolano nella gola
come vermi.
In questo momento
sono cibo da re,
e il vino adesso ha un corpo
di donna con forti fianchi larghi
e cosce grosse e solide;
ha l'anima di un vecchio contadino:
svelle radici vecchie
di una quercia.
Mi si scalda tutto lo stomaco
a un tratto,
e la testa mi gira forse un po',
e certo devo aver anche dormito,
perché tutto mi sembra
più rapido l'ultimo tratto,
o forse anche lui
pigia un po' più forte sul pedale
del gas.

Ci fermiamo alle prime case di un paese.
Non è Neu Isenburg,
ma lui, che ha letto su un cartello, mi dice
che sta un poco più in là.
Tanto vale dormire un po'
e presentarsi freschi alla mattina.

Ci lasciamo a Neu Isenburg, alla 
Lindenstrasse, dove mi ha portato.

"Passa di sera all'Eis Caffè Venezia,
sennò al Tivoli: c'è anche un biliardino.
Lì vanno tutti gli italiani."

Non l'ho più incontrato.
Nelle cento contrade dove la vita
mi ha trascinato,
ogni tanto, all'inizio, mi pareva
di riconoscerlo.
Adesso non ricordo più nemmeno
il colore dei suoi capelli.
Fumava sigari puzzolenti,
e le sue olive nere 
le potevi inghiottire solamente
bevendo quel suo vino grasso
come petrolio greggio.

E quel sapore amaro nel palato
m'è rimasto di lui,
testimonianza
di quella lunga notte
passata insieme.








venerdì 23 novembre 2012

TATORT 12


ULTIMO  ATTO

1.

Non entro nei suoi sogni
per non turbarla,
per impedirle
di nascondermi il suo
segreto.
Aspetto il suo
risveglio
e intanto mi sposto
di lì, vado
nella stanza
del mio amico pittore,
nella casa di Gipi
per entrargli nel sonno
e chiedere a lui
un piccolo favore.
Ma Gipi questa sera
è ubriaco marcio:
giace vestito e calzato
nel suo letto stazzonato
e sporco,
nella sua testa ramingano
cagne azzurre e verdi
sotto cieli rossi,
infiniti;
a colori sogna
Gipi ogni volta
e dorme sodo per non
svegliarsi mai, 
per non uscire dal suo mondo
colorato e morbido
dove si sente
al sicuro.
Ma io ho urgenza di parlargli,
di svelargli il mio piano
e solo nel sonno
posso
parlare con lui.

Allora torno da Irene
e dal suo amante.
Dormono sempre
sono molto affaticati;
Irene ama violentemente
squassando i fianchi
del suo uomo
di turno.
Avevano fretta di spogliarsi
e copulare,
la vista del mio corpo
nudo e immobile
all'obitorio
deve averla eccitata
per una scopata macabra;
tutti i loro indumenti
hanno lanciato
lontano.
Dalla giacca di lui
è uscito un depliant:
è la pubblicità della
Galleria Lupert
di Gerard Lupert,
c'è la sua foto
in copertina.
Dunque è lui il gallerista
che acquista il maggior 
numero dei miei quadri
e li paga 
con bei soldoni.
Anche facile da capire
che Irene preferisca
tenere tutto sotto controllo,
danaro, potere e sesso,
a lei niente
deve sfuggire.

È quasi l'alba e Gerard
è sveglio.
Guarda
il chiarore del giorno
filtrare attraverso
le tapparelle.
Ora lui la sveglia 
con due carezze,
ma Irene
scosta la sua mano.
In un attimo è in piedi
in piena azione.
-Che succede se il cretino
 ricomincia a dipingere
 la sua merda?
Gli chiede.
-Succede che il mercato
 gli si rivolta contro
 e tutte le sue opere 
 ancora invendute che stanno
 in galleria
 sono buone per il fuoco,
 questo succede.
-Quanti quadri hai di lui?
-Più di duecento;
 adesso almeno sei milioni
 di marchi il valore,
 fra un mese zero.
 Quanti quadri ha ancora
 nell'atelier?
-Non meno
 di trenta, considerati
 anche gli incompiuti,
 quindi un altro milione.
-E poi i disegni, le prove
 d'artista, vedi
 quanto danaro è a rischio
 se non riesci a
 convincere
 quell'uomo a ragionare
 e a non fare
 l'eroe.
-Lo stupido,
 dillo pure chiaramente.
Irene si è accesa 
una sigaretta
e fuma nervosamente
e nervosamente
si sposta nella stanza
seminuda
e furibonda.
Si ferma, lo guarda, sbuffa
il fumo verso l'alto.
-E se morisse?
Gli chiede e aspetta
una risposta.
-Tutto il valore
 si raddoppia, come sempre
 succede quando
 un artista muore e finisce
 di produrre.
 Se si ha l'accortezza
 nell'immettere
 le sue opere lentamente
 sul mercato
 e si aspetta qualche anno
 si può quasi arrivare
 a triplicarne
 il valore.

Adesso ho ascoltato
a sufficienza;
adesso torno da Gipi
e spero che dorma ancora.


2.

Ringraziando il cielo
Gipi dorme,
la sbornia deve essergli
scemata, ma adesso
sta già impegnato
dentro sogni promiscui
e si dibatte
con ricordi d'infanzia
e coi rimbrotti che
gli rivolge la vita
alla quale lui intende ribellarsi.
Appare una barca
con dei ragazzi addormentati
a bordo. "Volevamo andare
in Africa a conoscere
il mondo e genti
nuove", mormora nel sogno.
Cerco di entrare
nei suoi sogni, mi faccio forza
ma lui chiude i percorsi,
abbandonandoli
appena io ci entro dentro;
prende nuove strade, 
sono strappi convulsi i suoi percorsi
come arrampicate sui monti
e vertiginose discese,
gli tengo dietro
a fatica.
Lui cerca suo padre
nel suo sogno
a singhiozzi;
vedo là in fondo un vecchio
che saluta,
si avvicina
e Gipi parla a lui
e ignora me.
"Non dirmi che sono colpevole",
grida Gipi a suo padre,
"hai colpa anche tu, papà.
Tu volevi essere libero
per i tuoi amici,
per il tuo gioco del pallone,
e soprattutto
per la tua macchina fotografica.
Te l'ho sempre vista a tracolla
la tua Leika.
Ci sei nato con quella al collo, papà?
E io solo a casa con quelle
due femmine guardiane dello zoo
con una sola scimmia parlante.
Io ci morivo dietro i vetri
della finestra a guardare
tutti gli altri ragazzini
che ruzzavano sozzi e sudati,
felici loro
quanto ero infelice io.
Di questo tu non ti accorgevi
nemmeno, e del bisogno
che io avevo di te.
Al bambino che ti veniva
incontro pieno d'ansia
alla sera
scarmigliavi i capelli,
solamente,
e sempre gli dicevi
ciao, bello di papà, hai fatto
i compiti?"

E io adesso guardo 
il vecchio che non saluta più
ma piange e va via.
Ora al suo posto 
posso entrare io
perché Gipi mi pare immobile
impietrito, 
con lo sguardo fisso
sul vecchio che scompare.

-Me lo ha dato Dio
 un padre così, dice Gipi.
-Dio non c'entra,
 Dio non sa tutto,
 Dio non sa niente e ogni cosa
 avviene senza che sia
 prefissata
 in uno schema divino, gli rispondo.
Ma perché gli dico questo?
Perché mi metto 
contro di lui
e lo irrito?
Io ho bisogno di Gipi,
lui può fare
quello che a me non è
concesso più.
-Lo cerchi Dio?
Mi sta chiedendo.
-Io vedo cento volte Dio
 in ogni frazione di momento,
 ma non lo cerco mai.
-Sai dirmi cosa pensi
 che potrebbe accadere
 domani?
Mi chiede ancora.
Non gli rispondo e aspetto
che parli lui,
mi sembra bene intenzionato.
-E se domani ti svegli
 con un orecchio di meno,
 o una gamba segata,
 o un occhio solo in mezzo 
 alla fronte come Polifemo, insomma
 se domani
 la tua permutazione quotidiana
 avrà prodotto un mostro visibile, diverso
 da quello invisibile
 che sta dentro,
 tu ci riusciresti a continuare
 indifferente
 a muoverti, a spostarti,
 a fare i tuoi bisogni,
 a comprare le tue cose
 in mezzo agli altri
 come se niente fosse successo?
-Sì, perché anche gli altri
 avranno avuto
 la loro brava permutazione
 quotidiana
 e si troveranno
 in qualche nuova dimensione
 più o meno come
 mostri oppure oggetti
 mostruosi visibili.
Gli rispondo perché
ho capito dove sta andando
a parare in modo innocuo.
-Ecco, giusto!
Mi fa tutto rallegrato.
-Vedi che tutto funziona
 come da sempre ha
 funzionato; non c'è quindi 
 bisogno di mettersi
 le mani nei capelli.
-Io sono stato ucciso
 l'altra sera, Gipi.
Gli dico.
-Sono io forse ad essere
 stato ucciso
 e tu sei il mio inquisitore.
-Io sono stato ucciso, Gipi
 non tu.
Gli ripeto.
-Menzogna, è una menzogna:
 la riconosco al fiuto.
 Vedi, mi sono venuti i capelli grigi
 per tutti gli anni passati
 a raccontar menzogne.
-Sei mai stato innamorato tu, Gipi?
Ride, si tiene la pancia,
devo averla detta grossa.
-Io ho voluto
 innamorarmi mille volte,
 perché di innamorarmi
 avevo bisogno per le
 mie fantasie:
 ogni nuova donna, nuove
 storie, nuovi sogni, nuove
 immagini.
 Per me fantasticare 
 è più importante che vivere.
 Eh sì! Mille volte 
 ho voluto innamorarmi
 ma non ho amato forse mai,
 nemmeno mia madre
 del tutto.
-Io sono già morto, Gipi
 e ho bisogno di te.
-Tu sei una troia, uomo.
 Non stai sopra
 e non stai sotto,
 non stai prima
 né stai dopo;
 non sei proprio mai
 esistito.
-Mi aiuti o no?
Gli chiedo con voce
concitata.
-Prendi il tuo Cristo
 a calci nel culo quanto ti pare,
 però dopo pagagli una birra
 poveraccio:
 rifacci pace fino alla
 prossima volta,
 chissà che non sia vero
 che fa ancora
 miracoli?
-Gipi, vai nel mio atelier,
 tu sai dove nascondo
 la chiave dell'ingresso.
 Dentro il cassetto
 del tavolo grande
 c'è un libretto con la fodera
 verde. Dentro ci sono
 appunti ed alcune
 poesie.
 Portati via il libretto
 verde, torna qui e telefona
 a Irene. Le leggerai l'ultima
 poesia.
-Cosa dice sta poesia?
-"Ho scritto il tuo nome
 sopra una nuvola
 che passava sulla nostra 
 casa, ma un vento veloce
 l'ha portata lontano.
 L'ho inseguita ma si era
 sciolta in pioggia
 sopra un bosco.
 Ho cercato il tuo nome
 tra gli alberi
 ma non ce l'ho più trovato:
 era scomparso e col tuo nome
 sei scomparsa tu".
-E che significa?
 È un codice segreto?
-No. È un inedito.
 Solo lei lo ha letto.
 Quando tu le dirai
 la poesia al telefono,
 aggiungerai che te
 l'ho data io 
 prima di morire, perché
 io sapevo che proprio lei
 voleva la mia morte
 e che anche tu
 conosci il movente.
-E sarebbe?
-Tanti, tanti soldi.
-E quando glielo avrò detto
 che succede?
-Niente. La tua missione
 è compiuta.
-E se vuole vedermi?
 Se mi chiede un appuntamento
 per parlare con me?
-Non ci andare, Gipi,
 non ci andare mai.
 Rimetti giù il telefono
 e non risponderle più.

Esco dal suo sogno
soddisfatto.
Quando riceverà la
comunicazione di Gipi
a Irene verranno i piedi freddi.


3.

Sono tornato sul tetto
della casa dei gerani.
Irene è vestita come sempre quando 
rimane in casa, ma gira
nervosa per tutto
l'appartamento,
mentre il suo gallerista
si prepara per uscire.
-Ricorda quel che ti ho detto.
Le dice.
Uscito lui Irene
non fa niente.
Accende una sigaretta
dietro l'altra,
gira per le stanze,
si siede, si rialza,
è nervosissima,
come quando
è indecisa.

Io tutto il tempo resto
sospeso, coi piedi
verso il cielo
e il tetto
della casa dei gerani
a qualche metro 
sopra la testa.
La vedo attraverso
le tegole e le
strutture dei pavimenti
nella sua stanza
che fuma
una sigaretta
dietro l'altra.

Fino a tarda sera
quando riceve
una chiamata
sul suo telefono.
Ascolta muta,
assorta,
non risponde; 
riattacca il telefono.
Era Gipi,
ne sono sicuro.
Non le avrà per caso
dato un appuntamento?
Troppo breve il tempo
per leggerle la mia poesia.
Non sarà mica matto
a incontrarla,
dopo che mi sono
sgolato per raccomandargli
di non farlo per nessuna ragione.
Mi sposto da lui:
non c'è, è già uscito
non posso rintracciarlo
così in fretta
e mi risposto da Irene.

Lei è già pronta:
ha indossato jeans, una delle mie
camicie e una cravatta; 
lo fa spesso, le piace
vestirsi da uomo.
Ci aggiunge un foulard di seta, 
va nell'armadio, 
apre dalla mia parte
e ne tira fuori il mio impermeabile 
beige, che le piace così tanto.
Mette sulla testa un cappello
a falde flosce
molto morbido,
e calza i suoi guanti
di pelle nera.
Va giù nel garage,
mette in moto il Mercedes 
e parte veloce.
Sembra conoscere bene la strada.
Va nella Eschersheimer Landstrasse
e pista veloce, dirigendosi
fuori città.
Io sono al suo fianco.
Entro nei suoi pensieri:
nulla,
freddo glaciale.

Avanti a noi l'auto
di Gipi.
Riconosco la targa.
Irene spegne le luci
lo segue al buio.
L'auto di Gipi sbanda,
va quasi fuori strada
dentro un fossato; 
finalmente si ferma.
Gipi esce di corsa
lasciando le luci accese
e la portiera spalancata.
Anche Irene ha fermato, 
a qualche metro di distanza.
Spegne il motore,
tira il freno a mano,
esce tranquilla,
si tira giù la falda del cappello,
alza il bavero dell'impermeabile
e si tira sul naso
il suo foulard di seta.
Cammina piano, sicura,
dietro Gipi che corre.
Gipi incespica appena entrato
in un bosco, cade in ginocchio, 
rimane quasi immobile
in quella posizione,
si deve essere
fatto male
e sembra respirare a fatica.
Io resto accanto a Irene.
Lei gli è ormai vicinissima,
ma Gipi non si volta
verso di lei,
come se non ci fosse.
Lei raccatta una pietra 
molto aguzza,
abbastanza pesante.
Gli sosta accanto come
un giustiziere
al condannato sul patibolo.
Poi solleva il braccio
e colpisce con la pietra
l'uomo prono alla testa,
una, due, tre volte,
finché l'uomo precipita
a terra
lordo di sangue.

Addosso gli sta Irene
la pietra lercia di sangue
ancora in mano:
aspetta da quelle membra
rattrappite
una qualsiasi mossa per colpire
di nuovo, più forte ancora.
Sul collo lo tocca:
segno di vita non trova.
Getta
la pietra allora
e tutto intorno si guarda.
Sassi raccatta e rami secchi
per buttarglieli sopra,
per nasconderlo un po'.
Poi di un passo indietreggia
e di nuovo
tutto intorno si guarda
e se ne va,
sicura,
senza fretta,
lungo il sentiero,
lentamente
senza voltarsi mai indietro.

Una moto incontro ci viene
coi fari accesi, 
abbastanza veloce su per il sentiero.
Ma io non ho voglia di guardare
quello che fa Irene,
che si nasconde per non
farsi vedere,
e nemmeno guardare il giovanotto con
la giacca rossa di pelle, senza casco,
né la sua ragazza
che si appoggia
alla sua schiena
coi lunghi capelli liberi
nel vento.
Io voglio vedere se Gipi
è ancora vivo,
ma è morto,
assassinato.
Non capisco però: 
il suo cadavere è qui
disteso per terra
dentro il bosco,
ma lui dov'è?

Lo guardo da presso,
lo tocco, 
mi faccio forza
e lo giro.
Guardo quel volto sporco di sangue,
quegli occhi sbarrati
dall'orrore.
Lo guardo attentamente.
Ma questo non è Gipi,
non è il mio grande amico pittore.
Quel cadavere sporco di terriccio
e di sangue è il mio,
quello è il mio volto,
quello è il mio sguardo,
come la ripetizione
di una scena già vista,
anche i due ragazzi 
in motocicletta;
tutto come due sera fa.
Non capisco più niente,
Tutto è così confuso.


4.

-Stop!
 Buona la prima, migliore
 la seconda, ma come sospettavo
 non hai capito nulla.
È di nuovo accanto a me
colui che era apparso dopo il mio assassinio.
Ha un'espressione strana sul viso
tra l'incredulo e lo schifato.
-Ti do ragione,
gli rispondo;
 sono più confuso di quando
 ti ho chiesto di capire.
 Però perché questo morto
 sono di nuovo io?
 Dov'è Gipi, il mio migliore amico?
 Si è salvato?
Intanto sta arrivando
un vagabondo per saccheggiare
il cadavere e spogliarlo di tutto,
anche delle scarpe.
Ci spostiamo altrove,
accanto all'auto di Gipi
con la portiera ancora aperta.
-La riconosci?
Mi chiede il mio interlocutore.
-Certo, è l'Alfa Romeo di Gipi.
-E questo è esatto
 ma non come credi tu.
Mi prende per mano,
ci spostiamo nel mio atelier.
C'è silenzio assoluto.
Le luci sono spente
ma io vedo tutto
chiaramente.
-Qui sono le tue opere finite,
 ventotto, e le incompiute
 quattordici.
 Guarda in basso a destra
 nei tuoi quadri finiti.
 Cosa leggi?
-C'è la mia firma e la data.
-Leggi la firma, ti dico.
Guardo attentamente, 
leggo scritto in stampatello: GI-PI.
-Sono le iniziali del tuo nome,
 tu ti chiamavi Giorgio
 Pini e hai sempre
 controfirmato con quello
 pseudonimo, e con quello
 eri famoso nel mondo
 dell'arte.
-Ma io sono entrato
 nei sogni di Gipi, 
 nel suo atelier....
Mi interrompo perché 
adesso ricordo
la grossa sbronza che mi 
ero preso,
e poi i sogni di Gipi
erano i miei sogni...
......
la barca coi ragazzi....
erano i miei amici e volevamo
raggiungere l'Africa
per conoscere gli africani...
.....
e io discutevo con mio padre
che se ne andava in giro
con la sua Leika a tracolla
("ci sei nato con quella al collo, papà?)
e mi lasciava solo dentro
casa con mia madre e mia 
nonna come carceriere...
....
io ci morivo dietro i vetri
della finestra a guardare
tutti gli altri ragazzini
che ruzzavano sozzi e sudati,
felici loro
quanto ero infelice io....
....
-Perché dovevo morire 
 io ormai lo so, per i soldi dei
 quadri che valgono
 tre volte tanto ora che il pittore
 è morto; ma non capisco
 perché non sono fuggito 
 in quel bosco dopo essere caduto;
 perché ho aspettato le mazzate di Irene
 come un agnello sacrificale
 col capo prono?
-Proprio non ricordi?
-Ignoro cosa devo ricordare.
-Eri in un vicolo cieco: 
 non volevi più dipingere i quadri
 di Irene perché ti avvelenavano
 la vita e hai ricominciato
 a dipingere i tuoi quadri.
 Credevi di farcela, ma l'estro
 era andato perduto, e dopo
 tre settimane di febbrili tentativi
 inutili, hai capito che
 non ce l'avresti mai fatta.
-E allora?
-Allora hai deciso di ucciderti,
 "meglio morto che schiavo"
 lo hai scritto tu.
-Dove? Quando?
-Prendi quel rotolo di tela
 grezza. Si tratta di due tele arrotolate
 l'una nell'altra.
 Aprile, ci troverai un foglio,
 il tuo ultimo scritto.
Distendo le due tele 
e trovo il foglio.
Leggo.
"Ho deciso di togliermi la vita
perché sono alla fine come artista
e come uomo.
Meglio morto che schiavo.
Gipi".
-Stavi correndo verso il cavalcavia
per aspettare il treno diretto 
Francoforte-Monaco
e lasciarti travolgere 
e finire in bellezza,
ma la tua auto ha avuto
una panne.
Ti sei messo a correre a piedi
 perché avevi pochi minuti
 di tempo, ma sei inciampato.
 Hai maledetto la tua solita sfortuna
 ma poi hai visto quello 
 che credevi il sicario
 e lo hai atteso.
 Questo è tutto quanto tu volevi
 sapere, Gipi.
-Adesso che succede?
-Adesso ce ne andiamo di quà.
-Dove?
-Non chiedere dove, né come, né quando;
 in questa dimensione non c'è 
 passato né futuro, ma solo presente
 infinitamente, 
 e solo spazio, non luoghi.
-Che cosa sono io adesso?
-Altra domanda inutile.
 Comunque ti aiuto ancora:
 tu non eri, non sarai e non sei, 
 tu esisti.
-Posso chiederti qual'è 
 il tuo nome?
-Akram.
-Resteremo insieme per molto?
-Sempre: io sono il tuo accompagnatore.
 Adesso basta domande
 noi ce ne andiamo di qui.
Sono felice di stare con Akram,
è come se lo avessi sempre
avuto accanto.




F I N E


RINGRAZIAMENTI  E  DOMANDE


Ringrazio tutti coloro che hanno letto questo mio lavoro, tutti senza distinzione, anche quelli che si sono astenuti dal commentare, per la pazienza che hanno dimostrato nel leggere tutta sta roba. Vi sono debitore del vostro prezioso tempo.

Vorrei porre due domandine semplici, alle quali risponderete come al solito con estrema sincerità.

1. Vi è piaciuto oppure no?

2. Avete trovato interessante il finale?

3. Ritenete che possa tentare di cercare un editore, che me lo pubblichi? Non a pagamento è sottinteso.

Ancora grazie a voi, amici miei.