lunedì 28 marzo 2011

LUDOVICO FELTRINELLI VOLÒ E VOLÒ

Racconto in cinque parti
Parte prima

Ludovico Feltrinelli era nato sfigato trentadue anni or sono, ultimo figlio in una famiglia già piuttosto numerosa; sua madre era sempre triste durante la gravidanza e suo padre sempre incazzato, mentre lui dentro il pancione non poteva immaginare di essere il classico esempio di un incidente di percorso. Quando nacque lo buttarono nel mucchio senza perderci tanto tempo, e lui così crebbe, sempre nel mucchio, anonimamente, circondato da pochissimo amore e tantissima indifferenza.
Dalle mani di uno psicoanalista da duecentocinquanta euro a seduta sarebbe magari potuto uscir fuori un diligente impiegato di banca e un normale padre di famiglia; ma lui era nato a Bracciano e non a Londra o a Parigi, e la psicoanalisi l'aveva vista praticare soltanto nei film americani. Così divenne sergente in una batteria di artiglieria pesante campale di un reggimento di stanza a Udine, e quello che era stato il suo viaggio più lungo si rivelò anche il più importante, perché a Udine conobbe Susanna e la sposò.
Prima di lasciargli sposare la figlia i suoceri gli procurarono, da quelle brave persone che erano, anche un lavoro per mantenerla: visto che avevano un supermarket riuscirono a infilarlo come rappresentante in una ditta loro fornitrice, un solido salumificio friulano, così rimaneva tutto nel loro ambiente e sotto controllo, pensarono. Gli fu affidata come zona la provincia di Treviso, e in quella città Ludovico e Susanna si trasferirono dopo un po', perché costava un sacco di soldi e di fatica fare ogni giorno su e giù da Udine, e perché è bene che i giovani appena sposati vadano a vivere soli e lontano dalle loro vecchie famiglie, fecero osservare i suoceri a Ludovico. Ma lui la sfiga se la portava addosso dal tempo prenatale, come s'è detto, e quella sembra che sia la più tenace a spiccicarsi dalla pelle. Così, prima ancora che si concludesse un anno di matrimonio, si verificarono due eventi che in seguito sarebbero apparsi decisivi.
Durante un normale controllo ginecologico i medici si accorsero che Susanna aveva un utero infantile, e che pertanto mai avrebbe generato figli. Questo fu il primo evento. In conseguenza di quel verdetto la ragazza cadde preda di una acuta depressione, e la madre si precipitò a riportarsela a casa per poterla meglio curare, e soprattutto controllarla la notte e il giorno, ché non le venisse qualche idea sciagurata in testa per l'amor di Dio!
Ludovico, rimasto solo e con pochissime conoscenze a Treviso, cominciò tutte le sere a infilarsi a casaccio dentro il primo cinema che si trovava davanti, senza nemmeno badare se davano un film che aveva già visto, così, tanto per non pensare a niente. Finché gli venne la nausea anche del cinema e una sera che bighellonava da un paio d'ore si accodò a una fila di persone che compravano il biglietto per una qualche manifestazione; fu così che si trovò dentro al Palazzetto dello Sport, dove la Benetton di Treviso incontrava la Kinder di Bologna, scontro al vertice della serie A1 del campionato nazionale di Basket. E lì dentro incontrò Nelly. Questo fu il secondo evento.
La notò perché era la sola che non urlava e non si agitava come tutti gli altri pazzi scalmanati; perché sedeva proprio accanto a lui, e perché era bella da mozzare il fiato: bionda miele, trasparenti occhi color indaco, vita stretta, tette a punta e cosce lunghe come in certi cartelloni pubblicitari. Ma questa sembrava vera e si stringeva le braccia sui fianchi come se avesse freddo. Gli sembrò che rabbrividisse e le offrì il suo cappotto.
"Prenda, indossi questo", le disse. Forse si sente male, pensò.
"Non è freddo, è rabbia. Odio questo sport".
"Perché non esce allora? Se vuole le farò compagnia; neanche a me interessa poi tanto 'sta partita".
"Non posso andarmene. Devo assistere fino alla fine, sono la moglie del pivot della squadra di casa".
Già, il pivot! Due metri e cinque di muscoli sodi, di braccia mulinanti, di piedi immensi, inumani, e di barba mal rasata. E mai una parola gentile per una donna così fine, mai un fiore o una carezza, ma solo manacce dure come pietre avvinghiate al sedere di lei cinque minuti prima di prendere sonno.
Cominciò immediatamente sulle sue vicissitudini matrimoniali la conversazione di Nelly D.C. con Ludovico Feltrinelli, con uno mai visto prima; ma il bubbone stava scoppiando ed era bastata una parola diversa dai soliti grugniti per fondere il ghiaccio dentro il cuore della donna.
Uscirono a metà del terzo tempo. La Kinder era in vantaggio; gli arbitri purtroppo imparziali non si decidevano a cercare di far vincere la squadra di casa; il pubblico, in crisi di rabbia furiosa contro i propri giocatori perché le prendevano e accecato di odio contro i bolognesi perché le davano, non badò nemmeno un po' alla moglie del pivot, che se ne andava insieme a uno sconosciuto.
Camminarono l'uno accanto all'altra nella città semi deserta senza quasi dire una parola fino a mezzanotte. Poi si salutarono.
Si erano incontrati per caso, ma in seguito cominciarono a vedersi sempre più spesso e sempre meno per caso; ogni volta, tra un silenzio e l'altro, si rivelavano lembi delle loro esistenze sfortunate; si raccontavano pagine staccate delle loro insoddisfazioni quotidiane. Ma nessuno dei due aveva mai parlato all'altro di amore, o di innamoramento o di letto.
Passò ancora qualche mese. Susanna era tornata a casa, ma stava tutto il tempo distesa sul letto al buio con il mal di testa. Il campionato di A1 si era concluso e il pivot passava tutto il santo giorno a casa davanti alla TV. Ludovico e Nelly per ragioni di sicurezza si davano appuntamento a Vicenza, in uno dei bar del centro. Ogni nuovo incontro veniva utilizzato dai due come cartina di tornasole per far trasparire e analizzare reciproche tristezze.
Un giorno Nelly parlò di sesso, e fu un disastro.
Ludovico le aveva appena finito di raccontare (a modo suo, cioè con frasi lasciate a metà, silenzi e parole smozzicate) l'ultima lagna di serata trascorsa insieme alla moglie a seguire un programma televisivo di canzonette.
"Alla fine ce ne siamo andati a dormire", aveva concluso.
"Lu", le aveva chiesto Nelly dopo una pausa, "la cerchi tu per primo oppure è lei che ti tocca?"
Non le aveva risposto subito, doveva riflettere bene prima perché non voleva tirarla troppo avanti su quell'argomento, altrimenti avrebbe dovuto rivelarle i problemi che aveva con sua moglie sotto le lenzuola.
"Intendi dire chi è che...insomma tu vuoi sapere se io, oppure lei...beh...vedi Nelly, io...insomma...sì, incomincio io...quasi sempre...cioè...incomincio sempre io, ecco".
"Mi stai dicendo che lei non ti cerca mai per prima? Non allunga una gamba, una mano? Mai niente?"
"Una mano, dici?...Chi, Susanna?...sei matta! Fosse per lei staremmo ancora come alla prima notte. No, Susanna no; te lo puoi scordare".
"E tu, lo fai tutte le notti?"
"Cosa intendi dire con tutte le notti?"
"Se la cerchi, se la provochi. Insomma, Lu: ci provi tutte le notti con lei o no?"
"Ma no...certo che no...lei non lo vorrebbe".
"Non farmi credere che altrimenti lei ti direbbe che tu pensi sempre a quello"
"Ma certo che lo direbbe...anzi, lei lo dice sempre...e perché non dovrebbe? Voglio dire che quella è una tipica difesa delle donne in certi casi"
"Quante ne hai conosciute, Lu?...Sì, mi hai capito bene: quante ne hai conosciute che dentro il letto ti hanno detto che tu pensavi solo a quello?"
"Ma non lo so!...È una cosa che si dice...voglio dire che è un luogo comune tra noi maschi: l'uomo cerca di combinare qualcosa e la donna gli dice quelle parole lì"
"Uno stereotipo, insomma"
"Giusto: uno stereotipo"
"Susanna è uno stereotipo?"
"Beh, no...ma in un certo senso sì...lei entra nel gruppo delle frigide...cioè, no. Volevo dire delle svogliate...Dio mio non so come dartelo a intendere..."
"Nel gruppo di quelle che lo fanno solo perché debbono. Volevi dirmi questo?"
"Penso che potremmo anche dirlo in questo modo"
"Ancora peggio che se fosse frigida.
"Dici?"
"Si capisce, perché in genere le donne frigide continuano a provarci, se non altro per vedere se prima o poi riusciranno a sentire qualcosa"
"Ma Susanna sente qualcosa...sicuro...sai, un uomo si accorge di certe cose"
"Perché? Grida quando ha un orgasmo?"
"No, no! Non grida mai"
"Ma lo ha mai avuto un orgasmo?"
"Penso di sì. Io glielo chiedo sempre se le è piaciuto e lei mi risponde sempre allo stesso modo: è stato bello"
"Allora tu ci riprovi subito, no? Se lo ha trovato bello, voglio dire, tu ci riprovi?"
"Ma no! Non voglio sentirmi dire che penso solo a quella cosa"
"Insomma, cosa fai?"
"Niente faccio. Cioè...discuto con lei, cerco di farle capire che non è come la pensa lei"
"Tu discuti perché ti dà fastidio che Susanna pensi che tu sei un bruto assatanato dal sesso, è così?"
"Mi darebbe tanto fastidio se lei... se anche tu...insomma se la gente lo pensasse"
"Preferisci che lei, che la gente ti veda disinteressato a queste cose brutte e inutili, non è così, Lu?"
"Non mi occorre anche il tuo sarcasmo, adesso"
Nelly lo guardò un attimo serrando le labbra. Ma che razza di uomo aveva di fronte? Aspettò che dicesse qualcosa in sua difesa. Niente: Ludovico giocherellava con un'asola della giacca.
"Sarcasmo, dici? Non è sarcasmo è delusione, mio caro"
"Sei delusa di me, Nelly?"
"Sì, sono delusa di te"
"Non capisco. Che ti aspettavi? Che volevi che facessi?"
"Io non mi aspettavo né volevo niente. Quando ci siamo conosciuti ho pensato che tu fossi il solito imbecille che cercava di portarsi a letto la giovane moglie di un altro, trascurata e annoiata. Poi ho scoperto che anche tu affogavi nella noia e nella solitudine, e mi ha fatto piacere che ti fossi avvicinato a me solo per avere una compagnia, un'amica che ti dava ascolto. Ma una donna giovane si aspetta da un uomo normale e in salute, grande e grosso come te un complimento, un invito, una civetteria, che so, che le prenda una mano tra le sue, che tenti di darle un bacio, ecco"
"Era questo che volevi? Sono un perfetto idiota, è proprio questo che ti manca"
"Non mi manca niente così in generale: mi è mancato che lo facessi tu, non lo capisci?"
"No, sono molto confuso adesso"
"Al limite avrei preferito che tu mi fossi saltato addosso e mi avessi strappato la camicetta, piuttosto che startene a un metro di distanza come se io avessi il morbillo. Evidentemente sono una sciocca e una presuntuosa a pensare che ogni uomo che mi avvicina provi l'impulso di baciarmi...forse non sono il tuo tipo, non ti piaccio"
"Ma che cosa dici? Tu mi piaci tantissimo...sei bellissima, Nelly...ma io pensavo che fosse come insultarti se io...se ti avessi strappato la camicetta come hai detto tu"
"Era un modo di dire. Bastava un sorriso nel momento opportuno, uno sguardo più intenso, una parola sussurrata in un orecchio. Una donna bada a questa cose"
"Io non volevo osare per non guastare tutto. Pensavo che a te andasse bene così. Certo che pensavo di fare all'amore con te, ma ero certo che tu mi avresti respinto"
"Non hai capito niente. Non si trattava di fare o di non fare all'amore, di essere accettato o respinto come un pacchetto postale, nossignore! Si trattava d'altro. Tu dovevi...meglio, tu avresti dovuto flirtare con me, duellare con me un certame amoroso; e poi che ne uscisse fuori quel che diavolo ne sarebbe uscito. Mi hai capito, insomma?"
Ma dalla faccia di lui traspariva solamente stupore: attraverso gli occhi attoniti di Ludovico Nelly riusciva quasi a leggere i suoi pensieri balbettanti.
"Non mi hai capito, non è così?"
"No, Nelly, non capisco più niente. Adesso sono in completa confusione. Io penso...io credo che noi due dovremmo ricominciare tutto da capo. Dovremmo rifare insieme tutto il percorso dalla prima volta a oggi"
"Non è mica come un video, che premi il comando a distanza, torni indietro e rivedi la scena"
"Non rivedere, Nelly, rifare. Dobbiamo rifare tutto. Cioè, sono io che devo rifare tutto, scusami"
"Stai sognando, Lu? Io non sono una bambola, una figurina colorata che tu sposti indietro di una ventina di caselle e ricominci il gioco da capo. Levatelo dalla testa, Lu: tu hai fallito e non si ripete più niente"
"Vuoi dire che...alludi forse ai nostri incontri futuri?"
"Proprio a quelli, Lu. Non ce ne saranno più, perché non c'è senso a continuare a vederci. Per te è meglio così: potrai dedicare tutto te stesso a tua moglie e non far fallire anche quel rapporto, che per te è assai più importante"
"Ma perché? Potremmo continuare a vederci anche senza avere...io non capisco: tutto deve finire perché io non ho provato a metterti le mani addosso. È incredibile...è drammatico tutto questo...ed è così banale!"
"Hai ragione. È banale, e tu non ci capirai mai niente perché sei troppo intelligente. Ciao Lu. Buona fortuna"
Lo baciò sulle guance e se ne andò senza voltarsi, lasciandolo nella desolazione.

giovedì 24 marzo 2011

I BAFFI DI MILOS KRASIC

L'assassino sedeva nell'erba del campo e aspettava. Teneva d'occhio due finestre del terzo piano della prima casa al di là della strada, le due finestre sotto il tetto; una era illuminata.
L'assassino aspettava e si sentiva sicuro che tra poco anche quell'ultima luce nella casa si sarebbe spenta.
"Allora verrà fuori e passerà di qui".
L'assassino pregustava il momento dell'assalto.
L'assassino. Questo sostantivo se lo era scelto come un attributo, un appellativo, un aggettivo qualificativo, anche se non aveva ancora ammazzato nessuno, perché pensare che tra poco lo avrebbe fatto lo faceva star meglio.
Perché in fondo l'uomo seduto sull'erba si sentiva un assassino; era assassino nell'anima, nel cuore e nella mente, assassino in una trasposizione onirica della realtà. Non nei muscoli, non nei nervi e nel sangue, non ancora.
Pensava però che un uomo diventa vittima e comincia a morire nella testa di colui che sarà il suo uccisore, dove costui una, dieci, mille volte lo aggredisce, lo decapita, lo distrugge in mille pezzi. Allora la vittima continua a pensare, a parlare, a ridere, a camminare ma è già morto senza saperlo.
L'uomo seduto nell'erba, che aspirava a diventare assassino, aveva una mano nella tasca del giaccone carezzando il coltello che vi teneva nascosto: lasciava scorrere un dito sulla lama affilatissima, incidendone la pelle, facendone scaturire una goccia di sangue.
Mise il dito tra le labbra e succhiò quel sangue: aveva un sapore dolciastro e acre, il sapore della morte annunciata, desiderata, inferta.
Da quanto tempo voleva inferire morte a qualcuno? Forse dalla prima sera, dalla prima ora di panico, quando Esther non era tornata a casa dalla scuola privata di danza.
Orribili ore di telefonate, di corse in macchina a casa di amiche, di battute notturne nelle strade e nei campi alla periferia del paese.
L'uomo seduto nell'erba era certo che già in quelle prime ore di angoscia avrebbe voluto uccidere, schiantare, distruggere chi aveva osato toccare la sua creatura. Esther, sua figlia, una bambina di 14 anni appena sbocciata alla vita.
Il mondo era esploso intorno alla loro famiglia, intorno alla loro casa: Procura, Polizia, Carabinieri, Vigili del Fuoco, Protezione Civile tutti insieme li avevano accerchiati e braccati. Avevano violentato il loro piccolo mondo, vivisezionato ogni pagina della loro storia comune alla ricerca di qualcosa, di qualunque cosa.
Ma di che cosa?
Da cercare, da ritrovare era una bambina di 14 anni, ancora troppo ingenua.
E poi la loro casa circondata da giornalisti, da telecamere, da fotografi. Tutti ponevano domande, nessuno dava risposte.
Non avevano più letto giornali; non potevano più guardare la TV: ogni programma era invaso da notizie e talk show su Esther, da illazioni, approfondimenti chiacchiere inutili di chi aveva la pretesa di conoscere la soluzione del rebus.
Rapita da un maniaco sessuale; da una banda internazionale di sequestratori professionisti; da questo, da quello, da quell'altro. Si trova in Svizzera, in Francia, in Romania, nell'America latina.
"Non ce la faccio più" aveva gridato sua moglie, la madre infelice.
"Stacca la spina della TV, Agata"
"E se chiedessimo il silenzio stampa?"

Forse era stato un errore, ma adesso l'uomo che sedeva sull'erba era certo che in quelle tre settimane di sottovuoto spinto era maturato in lui l'istinto omicida iniziale, diventando bisogno assoluto, forza ignota che tutto travolge senza dare più requie, con insistenza crescente. Uccidi, uccidi, uccidi! Una voce imperiosa che sale dalle visceri, che rimbomba nel cervello.

Dopo 49 giorni la notizia più atroce, più temuta, più attesa oramai: Esther è morta da allora, dalle prime ore della sera della sua scomparsa ed è rimasta sempre là dove è stata trovata, nella sterpaia di un campo abbandonato da tutti, dagli uomini e da Dio.
Aveva dovuto riconoscere lui i resti della sua bambina. Agata non ce l'avrebbe mai fatta.
"Sì, è lei".
Tre parole per distruggere tre vite: quella di Esther, quella di Agata, la sua.
L'uomo seduto nell'erba riprese a carezzare l'affilatissimo coltello, lasciando scorrere i ricordi.

"Voglio vedere dove l'avete trovata", aveva chiesto in Procura.
Ce l'avevano accompagnato i Carabinieri.
Con il cuore stretto in un pugno aveva guardato a lungo l'impronta sul terreno lasciata dal corpicino di Esther. Si era accosciato e aveva appoggiato il palmo di una mano sul suolo.
Qualcosa sotto le dita.
Aveva stretto quel qualcosa nella mano perché i due militi non lo vedessero; lo aveva tenuto stretto fino a quando lo avevano riportato a casa. Non aveva fatto vedere il reperto nemmeno a sua moglie. Si era chiuso in bagno.
Col cuore in tumulto aveva aperto il pugno e osservato quel che aveva portato via dal campo della morte. Un cartoncino rettangolare colorato.
Ripulito il fango raggrumato era venuta alla luce una figurina Panini: un giocatore della Juventus, Milos Krasic.
Qualcuno gli aveva scarabocchiato con la biro un paio di baffetti sghembi.
L'uomo aveva sentito il sangue nelle vene diventare freddo. Ricordava la scena, avvenuta a casa sua qualche mese prima.
"Chi è questo qui?", aveva chiesto Esther.
"Il nuovo della Juve. È un grande campione", aveva risposto il ragazzo.
Esther gli aveva strappata la figurina dalle mani e scarabocchiato due baffi.
"Così sta meglio", e rideva a piena gola.
"Tu sei matta", aveva detto il ragazzo.

"Così adesso so chi sei", disse l'uomo seduto sull'erba a voce alta.
"Verrò qui tutte le notti, finché ti deciderai ad uscire dal tuo covo"
Per andare al parcheggio dove teneva la sua macchina doveva passare di lì, dove stava seduto lui, dove lui lo avrebbe ammazzato.
L'uomo si scosse: l'alba del nuovo giorno era arrivata e intorno a lui ricominciava la vita. La luce nella stanza sotto il tetto si spense.
L'uomo si rialzò. Era il momento di andarsene. Sarebbe ritornato dopo cena, a notte fonda.
Non c'era fretta.

giovedì 17 marzo 2011

CHE COSA FANNO LE GIOVANI TIGRI ECCETERA

Parte quinta e ultima


I primi due giorni da tigre furono per Marco un vero inferno. Quella mattina i corridoi delle stalle si riempirono di poliziotti e di fotografi. Lampi al magnesio, urla, ordini, bestemmie, estranei che correvano da per tutto. Dopo un po' mandarono gli animali fuori e fecero entrare i felini nelle stanze con le vetrate. La galleria era deserta e piantonata ai due ingressi da poliziotti in uniforme.
"Ci hanno segregato qua dentro perché sanno che uno di noi è l'assassino", pensò Marco. Si accorse che due poliziotti lo stavano osservando con particolare attenzione. "Oddio, sono troppo tranquillo", si disse. "Devo agitarmi come fanno tutti gli altri che stanno andando su e giù come impazziti, ma io non posso muovermi troppo col problema che ho".
La prima cosa che Marco aveva fatto quando aveva capito come doveva muoversi, era stato cercare di vedere se fosse ancora un maschio. Poggiato su un fianco, sollevando una delle zampe posteriori e protendendo il collo verso il punto dove cominciava la coda, come aveva visto fare a Dagmar tante volte, aveva controllato attentamente. Erano, grazie a Dio, ancora lì la sua arma e le sue munizioni, ma adesso doveva fare in modo che nessuno se ne accorgesse, perché non si era ancora mai visto che una tigre potesse cambiare sesso durante la notte.
Non poteva rimanere tutto il tempo ventre a terra; Dio non voglia avessero pensato che era ammalato sarebbe arrivato subito il veterinario, e lui lo aveva già visto un paio di volte al lavoro: gli avrebbe sparato addosso una siringa piena di un potente sonnifero e lui sarebbe crollato nel sonno. Ma cosa avrebbe detto poi Frau Müller? Aveva pertanto deciso di tenere la coda bassa e in mezzo alle natiche, e poi di muoversi sempre tenendo la testa rivolta verso la gente e il sedere al sicuro dalla parte del muro. Facile. Però camminava di lato come una tigre nel circo, per questo i due poliziotti lo stavano tanto a guardare.
"Devo andare su e giù come gli altri, non c'è altro da fare", pensò, "e tenere la coda attaccata al culo. E quando se ne accorgeranno che se la trovino loro una spiegazione".
Intanto teneva le orecchie tese perché i poliziotti parlavano tra loro dell'accaduto e facevano continui commenti, e lui avrebbe avuto modo di sapere su quali dei felini sarebbero caduti i sospetti.
Non dovette aspettare a lungo: caddero sulla tigre, che diamine! Cioè su di lui. I criminalisti avevano trovato immediatamente goccioline di sangue che partivano dal suo cancello e altre dentro la sua stalla. Era stata la prima volta che aveva leccato, maledizione! Dagmar avrebbe certamente fatto molto meglio. Ma quei poliziotti in borghese avevano anche detto che la tigre era stata usata come un fucile: chi aveva aperto e richiuso il cancello della stalla era l'assassino, un guardiano straniero che non si era ripresentato al lavoro dalla mattina del delitto, e che era scomparso lasciando il suo appartamento sottosopra e abbandonando perfino la sua macchina in un parcheggio dello Zoo.
Marco sentì la coda vibrargli e irrigidirglisi tutta. "Mamma mia, sono sistemato!" si disperò. "O resto tigre in questa gabbia a fare su e giù, oppure ritorno uomo e mi mettono in galera. Chi mi crederebbe mai se raccontassi come è andata questa storia?"
Ma più ci pensava più gli appariva chiaro quel che non aveva capito subito: era stato un omicidio, forse per legittima difesa, certamente per gelosia; comunque era stato complice di Dagmar, felicissimo che lei si sgranocchiasse il mago indiano.
"Chissà cosa le sarà successo, poverina; chissà dove sarà scappata", pensò tristemente. A casa sua non l'avevano di sicuro trovata altrimenti qualcuno ne avrebbe parlato.
Dopo averla inutilmente aspettata per giorni e per notti, Marco cominciò ad avvilirsi.
"Sarà morta", pensava; "di fame, sotto un treno".
Tutto era possibile: Dagmar non conosceva niente del mondo, era nata e cresciuta in una gabbia.

Una grigia mattina era ancora più triste e di malavoglia del solito; il percorso dalla stalla alla gabbia gli era sembrato che non finisse mai. Una volta all'aperto aveva appena fatto un mezzo giro guatando ringhioso un gruppetto di stranieri che lo fotografavano, quando sentì il pelo che gli si increspava sulla groppa e gli si gonfiava tutto. I sensi della tigre avevano reagito, ma a causa di cosa Marco non riusciva a capire. Allora sollevò la testa, dilatò le narici e annusò l'aria con forza in tutte le direzioni e finalmente gli arrivò il profumo di lei, un attimo prima di captarne la voce:
"Sono qui", gli comunicò Dagmar da lontano; "sto arrivando".
E subito la vide spuntare da uno dei viottoli laterali: indossava una tuta da guardiano e aveva un rastrello in spalla. Cominciò subito a pulire l'erba intorno al fossato.
"Sei contento?" gli comunicò col pensiero."Mi sono fatta assumere come guardiana. Ho detto a Frau Müller di essere una specialista di tigri. Lei mi ha fatto un sacco di domande ed è rimasta entusiasta delle mie risposte. Mi ha detto che ancora non aveva incontrato nessuno così bene informato sulle abitudini e sulla vita delle tigri, pensa un po' tu!"
Scoppiò a ridere fragorosamente. Più d'uno degli stranieri che fotografavano la guardò stupito.
"Perché hai aspettato tutto questo tempo per venire?" le chiese Marco rabbiosamente.
"Non è stato facile, amore mio; ho dovuto nascondermi".
"Come hai fatto per i documenti?"
"Come mi avevi detto tu: ho chiesto asilo, ma ho conosciuta altra gente che mi ha consigliata meglio. Ho detto di essere curda, sfuggita a un massacro, orfana e sola al mondo, proveniente da un paese che non esiste più".
"E sei stata creduta?"
"Come vedi sono qui. Adesso gli altri mi chiamano Kadriye"
"Hai sentito cosa dicono di me in giro per l'omicidio di Kaleb?"
"Per loro sei tu il colpevole, e ti stanno cercando da per tutto, amore mio; ma tu sei innocente".
"Sono colpevole quanto te".
"Dovevamo farlo per salvarci. Ma non ti troveranno".
"Avresti fatto meglio a dire che non mi troveranno mai più", ringhiò lui di rimando.
"Non posso rimanere più a lungo, amore mio. Qui ho finito. Vengo a trovarti stanotte".
"Hai sempre il mio cartoncino giallo?"
"L'ho fatto sparire. Adesso ho il mio personalizzato".
Glielo mostrò estraendolo a metà dal taschino della camicia, e se ne andò ancheggiando.
"Sta imparando in fretta come si vive in questo mondo", pensò Marco con una punta di gelosia. Ma poi quando alla sera se la trovò nella stalla dimenticò che si era ripromesso di strapazzarla un po' per averlo abbandonato solo per tutto quel tempo. Era troppo felice di leccarla e di annusarla e ronfava come una sega elettrica.
Dagmar si spogliò nuda rapidamente e cominciò a toccarlo e subito cercò di approfittare della sua erezione.
"Per l'amor di Dio, Dagmar! Non ce la puoi fare, è troppo grosso il pene di una tigre"
-Fammici provare, amore mio. Lascia che faccia tutto io, tu non muoverti, gli sussurrò.
Così fecero all'amore, e da quella notte tutte le notti. Marco pensava che la vita era ridiventata bella anche se stava in una gabbia, e il tempo gli sembrava fermo in quella sua vita da tigre, e i giorni tutti uguali.

In uno di quei giorni tutti uguali Marco si accorse che qualcosa di diverso stava succedendo: aveva visto un visitatore che se ne stava immobile da tanto tempo di fronte alla sua gabbia, cercando di incontrare il suo sguardo, lo sguardo di una tigre. Quell'uomo aveva un sorriso strano sulle labbra, e non era certamente l'unica cosa strana che avesse. Vestiva come certi uomini del secolo passato, come Marco aveva già visto in antiche fotografie: un doppio petto grigio scuro rigato, panciotto, cravatta a farfalla, colletto duro e in testa un Borsalino a tese rigide. Si appoggiava a un bastone con una vistosa impugnatura d'argento lavorato e all'occhio destro aveva un monocolo.
"Da dove esce fuori costui?" si chiese Marco.
"Da un posto dove si dà minor valore all'aspetto esteriore che allo spirito", gli rispose lo strano individuo sconosciuto senza muovere le labbra. "A me piace vestire come vestiva mio padre", concluse, e gli sorrise beffardo.
Marco si sentì gelare il sangue.
"Eccone un altro", pensò; "sono rovinato".
"Stai tranquillo: non svelerò il vostro segreto", gli lasciò intendere il signore sconosciuto; "e senza chiedere alcuna contropartita questa volta", aggiunse andandosene.
Aveva detto "vostro", al plurale, quindi sapeva tutto. Ma chi era? E che sarebbe successo adesso?
-Si chiama Mister Saladin, gli rivelò Dagmar quella notte. È un professore pakistano che è sempre vissuto a Londra. Adesso insegna nell'Università di questa città. È un mago anche lui, ma è un mago buono. Ha promesso di aiutarci, però deve prima trovare una soluzione per il tuo problema con la Giustizia.
"Come lo hai conosciuto?"
-Qui dentro. Mi si è avvicinato e mi ha chiamata Dagmar. Ha detto di sapere chi ero e tutto quello che era accaduto. Poi è venuto a osservarti da lontano e questa mattina ti ha parlato.
"Può fare anche lui quelle magie che faceva Kaleb?"
-Mi ha assicurato che può, ma che lo farà soltanto quando sarà sicuro che tutto andrà per il nostro meglio.
Quella notte, dopo che Dagmar se ne fu andata, Marco dormì beatamente come non gli accadeva da tantissimo tempo, immerso nel profumo di lei, e sognò un mondo senza gabbie.
Un paio di mattine dopo si fermò Maria davanti alla sua gabbia; a Marco fece piacere rivederla dopo tanto tempo.
-Fatti coraggio, gli disse Maria pensando di parlare a Dagmar; il tuo bell'italiano è sparito, ma fra un po' tu non sarai più sola: sta arrivando da Londra una bella tigre maschio, siberiana come te. Domani sarà qui.
E se ne andò ridacchiando.
"Cosa significa che fanno venire un maschio?", si chiese Marco agitatissimo. "Cosa diavolo sta succedendo?"
Proprio in quel momento vide il mago pakistano fermo a una trentina di metri da lui. Lo stava osservando e rideva. Anche lui rideva, sembravano tutti contenti quella mattina.
"Mister Saladin, cosa sta succedendo? La prego, mister Saladin, me lo dica".
"Stai tranquillo. Andrà tutto per il vostro meglio" gli rispose il pakistano e se ne andò, malgrado Marco lo supplicasse di restare. Si fermò alcuni passi più in là e iniziò a parlare fitto fitto con Dagmar, come se fosse una vecchia amica. Anche Dagmar rideva, anche lei era contenta.
"Dagmar!" la chiamò Marco, ed emise un potentissimo ruggito.
"Vieni qui, maledizione! Dimmi quello che sta succedendo".
Ma lei lo salutò agitando una mano e continuò a parlare col professore.
"Dagmar, dimmi quello che hai in mente di fare".
"Sta buono, amore mio" gli rispose lei gaiamente. "Andrà tutto bene: il mago ci aiuterà e noi staremo sempre insieme e saremo sempre felici".
Marco tenne il collo eretto e la testa alta per poterla seguire con lo sguardo il più a lungo possibile, mentre lei si allontanava a fianco di mister Saladin. Prima di scomparire dietro l'angolo di una siepe, Dagmar si voltò e gli inviò un bacio con la punta delle dita.




lunedì 7 marzo 2011

COSA PENSANO LE GIOVANI TIGRI ECCETERA

Parte quarta


Per un paio di ore lunghe ma brevissime fecero all'amore una, due, tre volte: Marco non lo ricordava più. Aveva provato sensazioni fantastiche, assolutamente nuove. La carne di Dagmar donna era tiepida e tenera, ma la forza era quella di Dagmar tigre e lei non era in grado di dosarla, soprattutto nell'impeto della passione, e più di una volta lo aveva lasciato senza fiato. Il profumo della pelle di Dagmar donna era però quello che lui oramai da mesi aveva dentro le narici, quel profumo selvaggio ed eccitante della tigre siberiana. La cosa più strana, a parer suo, era però che durante ogni orgasmo Dagmar gemeva come una donna e ronfava come una tigre.
-Resterei qui tutta la vita, gli disse stringendosi a lui. È così bello qui da te, e si guardò intorno.
-La casa è tutta qui ed è modesta: questa camera, un'altra più piccola e un cucinino piccolo piccolo, rispose lui. Il bagno però è bello, con una doccia grande e grossa dove potresti entrare anche da tigre.
Lei gli diede un piccolo pugno come risposta e gli morsicò una spalla.
-Potresti sbranarmi con questi denti? Le chiese.
-Potrei mangiarti di baci.
-È stato bellissimo, Dagmar, irripetibile.
-Sì, irripetibile.
-No, accidenti! Dobbiamo poterlo ripetere tutte le volte che vorremo, esclamò Marco balzando a sedere sul letto. Ma come si fa? Mancano meno di due ore alla fine di questa magia.
-Non aver paura, amore mio: noi lo ripeteremo quante volte vorremo. Te lo prometto.
-Cosa hai in mente di fare? Guarda che adesso me lo devi dire, perché non c'è solo la tua vita in gioco ma anche la mia. Allora Dagmar, qual'è il tuo piano?
-La sera che il mago ha fatto la magia con la pantera, mentre la teneva sospesa sopra la testa dei pitoni si è lasciato scappare un segreto. Glielo ha detto piano piano, perché forse voleva solo terrorizzarla e non credo si sia accorto che io ho ascoltato.
-Che segreto ha rivelato alla pantera?
-Le ha detto: "se adesso io morissi, tu rimarresti per sempre un sorcio". Hai capito adesso?
-Se muore la magia finisce.
-No, se muore la magia non ha più fine.
-E allora?
-Allora noi torneremo prima dello scadere delle sei ore. Tu aprirai la stalla della pantera: tocca a lei di diritto per tutta la paura che si è presa coi pitoni. Appena aprirai il cancello della mia stalla la pantera salterà dentro e sbranerà il mago, così io rimarrò per sempre una donna.
-E il cadavere?
-Non ti preoccupare: non sarà un delitto perfetto ma una messinscena perfetta. La pantera se ne ritornerà soddisfatta nella sua stalla e tu ne richiuderai il cancello. Domattina i tuoi colleghi troveranno Mister Kaleb morto ammazzato per terra, il cancello della mia stalla spalancato e nessuna traccia della tigre.
-Che non sarà mai più ritrovata, esclamò Marco entusiasta. Complimenti vivissimi! È proprio un piano diabolico, non te ne credevo capace. C'è però un grosso problema: come fare con te?
-Starò qui a casa tua. Imparerò a leggere e a scrivere e imparerò anche a cucinare.
-Volevo intendere come fare per i tuoi documenti.
-Che roba sono i documenti?
-Carte con fotografie, passaporto con nome, cognome, data di nascita.
-Inventerai tutto tu.
-Allora diremo che sei una profuga afgana e che hai perduto in guerra tutti i documenti. Chiederai asilo politico: qui lo danno a cani e porci, possono darlo anche a una tigre.
-A una ex tigre, scusa tanto.
-Adesso però vestiti, Dagmar; fra poco più di un'ora scade il tempo che ci ha dato Kaleb.
-Non facciamo all'amore ancora una volta?
-Avremo tutto il tempo per farlo dopo aver sistemato questa faccenda.

Dieci minuti dopo erano di nuovo in macchina. Un quarto d'ora dopo erano bloccati in un ingorgo stradale.
-Dove va tutta questa gente a quest'ora? Chiese Dagmar.
-A lavorare.
-E perché non si muovono?
-Ci deve essere stato un incidente, vedo luci blu che lampeggiano laggiù in fondo.
-Che facciamo, Marco?
-Dobbiamo aspettare, c'è ancora un po' di tempo.
-E se andassimo a piedi?
-Troppo lontano, e poi non si può abbandonare l'auto in mezzo alla strada, è proibito.
-E se scadono le sei ore?
-Ci restano ancora quasi tre quarti d'ora.
Ma dopo venti minuti erano avanzati per poco più di cento metri, ed erano ancora molto lontani dal punto dell'incidente.
-Marco, mi sento male, cominciò a lamentarsi Dagmar.
-Non aver paura, ce la faremo, tentò di rassicurarla. Ma ormai aveva anche lui un ansia maledetta addosso.
-Non è paura: mi sento male, tanto male.
-Cosa ti senti?
-Non lo so cos'è. Mi sento premere forte sul cuore e sulla pancia e poi mi gira la testa.
Marco la guardò e le vide il viso che si stava gonfiando. Gettò un'occhiata al suo orologio: mancava più di un quarto d'ora alla scadenza del tempo massimo.
-Oh Dio, no! Ha barato quel porco.
La guardò di nuovo disperato: Dagmar si stava gonfiando un po' da per tutto.
Poco distante da loro un poliziotto, piantato a gambe larghe e braccia conserte sul marciapiedi, osservava in direzione dell'incidente.
-Ehi, agente! Ehi, signor poliziotto! Gli gridò Marco con quanto fiato aveva in gola.
Il poliziotto si voltò verso di lui e gli fece cenno di pazientare. Marco saltò giù dalla macchina e gli corse incontro.
-Mi aiuti a uscire fuori di qui, la prego. Mia moglie sta male, devo portarla subito in ospedale.
-Mi faccia dare un'occhiata, gli rispose il poliziotto.
Da dove erano potevano vedere solamente la faccia della donna, ma era un gran brutto spettacolo: Dagmar stava nel pieno della crisi, si gonfiava e si sgonfiava velocemente e di continuo.
-Che cosa ha? Chiese il poliziotto allarmatissimo.
-E un'allergia: le devono dare subito un antidoto, sennò muore.
-Si rimetta al volante, le apro la strada.
Cacciò fra le labbra il suo fischietto e in un paio di minuti riuscì ad aprire un varco tra le altre macchine.
-Grazie assai, gli gridò Marco.
-Buona fortuna. rispose il poliziotto. Credo che la sua signora ne avrà bisogno.
-Non solo lei, amico, mormorò Marco.
Dagmar si stava strappando gli abiti di dosso; si lamentava e sbuffava a pieni polmoni.
-Vai di dietro e allungati sui sedili posteriori, le disse.
Lei con un balzo fu dietro. Un attimo dopo qualcosa colpì Marco sulla nuca con forza e lui vide l'estremità di una coda bianca sventolargli davanti al viso. Si girò a guardarla: Dagmar era tornata a essere una tigre siberiana.
-Lì dietro c'è una coperta: tiratela addosso. Che nessuno ti veda per l'amor di Dio.
Era ancora un po' buio e se avevano fortuna non avrebbero trovato nessuno dentro lo Zoo. Lei gli appoggiò una zampa sopra una spalla.
"È andata male, amore mio"
-Adesso che succederà? Chiese Marco angosciato.
"Rimarrà tutto come prima. Avevo fatto un sogno meraviglioso, ma è giusto così: io sono nata tigre e resterò una tigre"
-Hai dimenticato il tuo patto con Kaleb? Ti sta aspettando per portarti via.
"Non ci riuscirà: appena arrivo lo ammazzerò"
-Ti uccideranno per questo, te l'ho già detto.
"No, se lasceremo il cadavere nel corridoio e tu chiuderai la porta della mia stalla. Non sapranno mai chi è stato e non potranno ucciderci tutti"
Ragiona meglio di me, pensò Marco; è più lucida e fredda, mentre io sono soltanto uno stupido e un vigliacco.
"Sei solo impaurito, amore mio -si intromise lei- e tutto per colpa mia"
-No! Gridò Marco. Tutto per colpa di quel maledetto indiano, che sia dannato per l'eternità.
"Sssstt! Non si parla così di uno che sta per morire"

Il parcheggio vicino al suo ingresso era libero come lo aveva lasciato e Marco ci si infilò velocissimo. Uscì dall'auto, diede una rapida occhiata circolare ma non vide anima viva. Aprì la portiera posteriore e Dagmar balzò fuori dalla macchina coi nervi tesi. Fiutò l'aria tutto intorno.
"Non c'è nessuno. Apri"
Marco aprì il cancello di ingresso.
Andò avanti Dagmar, scrutando nel buio e annusando l'aria. Marco la seguiva alla cieca. Un paio di volte lei si immobilizzò, ma in breve tempo furono davanti all'ingresso delle stalle. Marco tirò di nuovo fuori il cartoncino di plastica gialla e in un baleno furono dentro l'edificio.
Se ci aspettasse nel corridoio sarebbe più semplice per Dagmar assalirlo, pensò Marco; poi lo lasceremmo per terra.
Lei si bloccò.
"Non pensare a nulla, ché lui già può sentire"
-Sai dov'è?
Dagmar annusò lungamente.
"Dentro la mia stalla. Apri il cancello e fermati appena entrato, ma non lasciarti toccare da lui. Io entrerò per ultima"
Per la terza e ultima volta usò il cartoncino magnetico. Il cancello si aprì e Marco entrò, fece un passo all'interno e si fermò.
-Volevate fare i furbi. Kaleb pronunciò quelle parole lentamente. Era pronto a tutto e si sentiva nell'aria un gelo mortale.
-Il furbo lo hai fatto tu, amico, gli rispose Marco con la voce che gli tremava. Cercava di vedere dove potesse trovarsi il nemico, ma non vedeva e non sentiva nulla.
-Hai imbrogliato sul tempo, concluse con rabbia e si mosse verso l'interno di pochi centimetri.
Allora lo vide, vicinissimo a lui, e si sentì sfiorare dalle sue dita. In quel momento Dagmar intuì il pericolo e attaccò: Con un balzo gigantesco piombò nella stalla, allontanò Marco con una spallata e planò sul mago con le fauci spalancate e i terribili unghioni della zampe anteriori protesi in fuori.
Marco sentì lo schianto delle ossa spezzate e vide Kaleb che lottava con Dagmar disperatamente. Vide le sue braccia che si avvinghiavano al collo della tigre, che lo strattonava con violenza.
Poi Marco non vide più nulla: sentì un'onda di freddo impossessarsi delle sue membra mentre una forza terribile gli opprimeva il torace come un macigno. Un fuoco voracissimo invase le sue visceri, e Marco sentì il sangue pulsargli alle tempie dolorosamente. Vide lampi chiari davanti agli occhi, sempre più chiari, sempre più veloci e pensò che stava morendo. Poi, di colpo, tutto cessò e si sentì sfinito, ma vivo.

A pochi metri da lui, disteso nel suo sangue e inequivocabilmente morto, giaceva il mago con la testa quasi staccata dal busto. Ma non vide Dagmar. Marco cercò allora di sollevarsi in piedi ma non gli riuscì.
Forse sono ferito, pensò; come diavolo sia successo non lo so, ma mi sento così strano.
"Dagmar, dove sei? Aiutami ché devo essere ferito"
La sentì piangere, qualche metro distante da lui.
-Dio mio, Dio mio! Singhiozzava Dagmar. Ha fatto la sua ultima magia e adesso è morto. Rimarremo sempre così.
Marco alzò la testa e la fiutò, poi la vide, accoccolata nell'angolo più buio.
Che strano, pensò: Dagmar se ne sta nascosta nel buio e io la vedo benissimo. È nuovamente tornata la bellissima donna di poche ore fa; dovrebbe essere felice. perché invece piange? E perché io la vedo così bene al buio? E perché ho questo gelo nelle vene?
"Dagmar, spiegami perché: tu sai"
-Kaleb ci ha puniti, amore mio. Io adesso sono una donna, e tu...
"E io sono diventato una tigre, è così?"
Ma non aveva bisogno di aspettare la risposta.
Dagmar riprese subito il controllo di se stessa e della situazione; in fin dei conti era lei la vera tigre. Raccolse i vestiti di Marco e li indossò.
-Bisogna portare fuori il cadavere da qui dentro, altrimenti uccideranno te, gli disse. Adesso lecca quel sangue, gli ordinò.
"Cosa devo fare?"
-Lecca il sangue!
"E come?"
-Con la lingua, sciocco! Adesso sei una tigre.
Marco provò a immergere la punta della lingua in quel liquido denso e vischioso con molta cautela, ma dopo un po' succhiava di buona lena. Accidenti se era gustoso!
-Adesso porta fuori il cadavere, gli intimò Dagmar.
Lui azzannò la salma del mago per un piede e iniziò a trascinarla.
-Ma no, ma no, cosa fai? Così se ne accorgeranno subito tutti dove lo abbiamo accoppato. Afferralo qui sul dorso e sollevalo da terra.
"Non ce la farò mai" provò a protestare Marco.
-Sì invece. È così che fa una tigre.
Facile però, pensò Marco mentre eseguiva la sua prova di forza e di abilità; credevo fosse più pesante.
-Ottanta chili, gli rispose prontamente Dagmar. Niente in confronto dei tuoi duecentoquaranta.
Marco depose il corpo in mezzo al corridoio. Tornò indietro e leccò velocemente e ingordamente le gocce di sangue cadute durante il trasporto, poi rientrò nella stalla.
-Come si infila il cartoncino? Chiese Dagmar.
"Dalla parte del bordo verde"
Lei eseguì senza esitazione la chiusura del cancello.
"Vattene Dagmar, Tra poco entreranno i guardiani del primo turno. Sai ritrovare la strada di casa mia?"
Lei annuì.
"Brava. Le chiavi sono in una tasca dei pantaloni. Adesso però vattene via, Dagmar, ché stanno arrivando"
-Non ti abbandonerò, Marco.
"Non mi devi abbandonare, Dagmar"
Scappò via un istante prima che accendessero le luci.

*










martedì 1 marzo 2011

CHE COSA PENSANO LE GIOVANI TIGRI ECCETERA

Terza parte

A Marco costò non poca fatica tenere a freno l'entusiasmo di Dagmar dopo il loro primo incontro. Lei era esigente, cocciuta e capricciosa come una ragazzetta al primo amore. Marco non poteva permettersi di allontanarsi per più di un'ora; doveva sempre transitare nei paraggi della sua gabbia perché lei lo vedesse e potesse trasmettergli i suoi messaggi. Guai se tardava: lei riempiva di minacciosi ruggiti lo Zoo intero e faceva scappare i visitatori. Ormai tutto il personale aveva capito il feeling che esisteva tra il giovanotto e la giovane femmina di tigre, e Marco non provò più nemmeno a negarlo, lasciando che i suoi colleghi si divertissero un po' alle sue spalle, purché a nessuno venisse in mente di controllare dove passava le sue serate una volta terminato il servizio. Lui non dava nell'occhio: usciva insieme agli altri buono buono, andava a casa, si preparava qualcosa da mangiare e dopo le ventuno, ora dell'ultimo controllo alle stalle da parte dei guardiani notturni, entrava da un ingresso secondario dello Zoo usando il suo pass-par-tout, andava alle stalle e si infilava in quella di Dagmar. Ormai si fidava, lasciava che lei gli leccasse le braccia, le mani, il collo; giocavano insieme e chiacchieravano come fanno due innamorati qualsiasi.
Marco non pensava che ad innamorarsi di una tigre si dovessero affrontare certi problemi. Quali problemi? Oramai se ne era innamorato e basta, e proprio il fatto che si trattava di una tigre gli dava una sensazione di potenza e di beatitudine, ancor più di quanto gli sarebbe capitato se avesse conquistato e fatto innamorare di sé la più bella donna del mondo. Ma come sarebbe andata avanti? Sarebbe andata avanti in qualche modo, in qualsiasi modo, chi se ne importava; adesso andava bene così, adesso Marco era felice e innamorato, al diavolo tutto il resto.
Quando se ne andava, quasi sempre dopo la mezzanotte, aveva l'impressione che alcuni animali, come la pantera per esempio, provassero invidia per la loro relazione.
Non è che andassero sempre proprio d'amore e d'accordo, qualche volta litigavano come due fidanzatini capricciosi e Marco se ne andava sbattendo il cancello, mentre Dagmar guardava ostentatamente dalla parte opposta mostrandogli il sedere. Ma durava poco: l'indomani mattina lei gli chiedeva di fare di nuovo la pace.
Una volta però avevano litigato di brutto per via di un povero uccellino che lei aveva fatto fuori. Marco stava riassettando la siepe intorno alla fossa di sicurezza che circondava la gabbia di Dagmar. Aveva visto con la coda dell'occhio l'uccellino in bilico sul muso della tigre protendere il collo nelle sue fauci per strappare gli avanzi di cibo rimasto tra i suoi denti, instaurando un tipico rapporto simbiotico. Marco si era distratto per raccogliere qualcosa da terra e un attimo dopo l'aveva vista masticare: l'uccellino era sparito ma per terra giaceva una penna della coda e qualche gocciolina di sangue. Marco aveva immediatamente chiamato Dagmar col pensiero una, due volte, ma lei aveva fatto finta di niente andandosi a sdraiare sonnacchiosa nella parte più lontana della gabbia. Quella sera non c'erano state né carezze, né leccate perché lui l'aveva attaccata subito con cattiveria.
-Sei proprio un animale senza anima! Hai divorato quell'uccellino che ti stava pulendo i denti.
"Ma non è stata colpa mia, te lo giuro. Io ho solo sbadigliato e quel cretino si è infilato tra le mie mascelle. Quando ho richiuso la bocca lui stava ancora lì. Scalogna per lui. Mi è dispiaciuto così tanto"
-Ti è dispiaciuto così tanto che te lo sei subito pappato. Volevi fare il delitto perfetto?
"Che vuol dire delitto perfetto?"
-Lo ammazzi e lo fai sparire, così nessuno ha visto e nessuno sa. Ma il delitto perfetto non esiste, impara.
"Ormai era morto, tanto valeva inghiottirlo. E poi non volevo che vedessi tu e che pensassi quello che hai pensato, che sono un'assassina e un'ingrata"
-Però hai dimenticato di leccare bene le due gocce di sangue per terra e di far sparire quella penna della coda.
"Il delitto perfetto non esiste. Lo hai detto tu"
-Mi prendi anche in giro, adesso?
"Ma cosa dovevo fare secondo te, mettermi a urlare per il dolore?"
-Sei cattiva, sei una belva cattiva, dovevo saperlo. Non hai cuore, solamente stomaco.
"Tu sei cattivo a dirmi queste cose. Adesso vattene, ché voglio dormire"
Non s'erano detti più nulla per tre giorni. Marco aveva evitato di passare nei paraggi della gabbia della tigre, e lei faceva sempre finta di dormire. Ma alla terza sera, mentre Marco tornava negli spogliatoi ed era a più di cinquanta metri dalla sua gabbia gli era arrivata la voce di Dagmar debole come un sospiro:
"Vieni da me stanotte, non riesco a stare senza vederti"
E lui era andato, malgrado si fosse ripromesso di non farlo.
"Non dobbiamo litigare più", gli disse Dagmar. "Tu sei il mio amore, non farò più niente che ti dia fastidio"
E così era stato da quella volta.

Da qualche giorno uno strano individuo con un blocco da disegno nelle mani se ne andava passeggiando ogni pomeriggio tra le gabbie disegnando animali: uccelli, lupi, orsi, leopardi. Disegnava tutti gli animali, ma soprattutto disegnava la tigre, sempre più spesso, ogni volta sostando più a lungo davanti alla sua gabbia, e dopo un po' Marco era certo che ormai avesse Dagmar come unico soggetto per i suoi schizzi.
Era un uomo alto e magro, con una folta barba nera; indossava un caffettano scuro su larghi pantaloni più chiari e un ampio turbante di seta azzurra sulla testa. Tutto il personale lo chiamava rispettosamente Mister Kaleb, oppure Doktor Kaleb perché era un ingegnere informatico indiano. Era stato ingaggiato dall'Amministrazione dello Zoo per installare e programmare un nuovo sistema digitale computerizzato. Una volta terminato il suo lavoro tutto sarebbe stato pianificato e attivato da un'unica centrale operativa, mentre ogni addetto ai servizi avrebbe ricevuto un cartellino plastificato e magnetizzato con inserito un chip contenente i propri dati personali e quelli relativi alla zona di pertinenza, per aprire e chiudere porte, cancelli e portoncini di gabbie e stalle, e per il passaggio attraverso ingressi secondari e uscite di emergenza. A Marco fu consegnato un cartellino giallognolo riguardante solamente il reparto dei felini, che per fortuna era proprio quello che a lui serviva.
Lo infastidiva però l'assiduità con cui l'indiano frequentava la gabbia di Dagmar. Quando c'era lui nei dintorni Marco non riusciva nemmeno a comunicare con la tigre, come se un'interferenza gli recasse disturbo e gli impedisse di sintonizzarsi sulla frequenza mentale della sua amata. Dagmar non se la prendeva più di tanto.
"Sta lì che mi gira intorno e mi ritrae" lo rassicurava alla sera; "mi sorride sempre, ma tu lascialo stare. Che male vuoi che mi faccia? Lui può solamente arrivare vicino alla gabbia e alla vetrata come tanta altra gente. Lascialo stare, tanto qui dentro vieni solo tu"
Il brutto giorno arrivò all'improvviso una mattina assai presto. Mentre Marco si preparava ad annaffiare un prato, vide sullo sfondo Dagmar che si agitava rabbiosamente nella sua gabbia. Il vento soffiava in senso contrario e lei non poteva percepirlo nell'aria, per cui Marco si spostò in avanti nel vialetto per una decina di metri in modo che lei lo vedesse, e proprio allora si accorse della presenza dell'ingegnere indiano, immobile davanti alla gabbia. Aveva anticipato la sua visita quotidiana di diverse ore, ma non stava ritraendola: era lì impalato con le braccia lungo i fianchi e sembrava non perdere d'occhio un solo movimento della tigre. Ma quello che più preoccupava Marco era l'insolito nervosismo di Dagmar.
"Che cosa c'è?" le trasmise. "Di che cosa hai paura? Che cosa fa lì quel tipo?"
Percepì come un fluido turbinoso nel cervello, poi gli arrivò la voce di lei molto agitata, rotta, come di chi è in preda al terrore.
"Vai via di qui! Non ti avvicinare! Non cercare di parlare con me!"
In quel momento l'indiano si voltò verso di lui e lo fissò a lungo, finché Marco non reagì alle ultime parole di Dagmar.
"Fai come ti ho detto. Ti prego, fai come ti ho detto"
Marco se ne andò di umore pessimo. Che poteva significare tutto questo? Quell'indiano era in grado di intercettare i loro colloqui? Era dunque possibile che qualcun altro potesse parlare con una tigre? Che stupido sono stato, pensò Marco, a credere di essere il privilegiato, l'unico al mondo capace di farlo. Ma forse non è così, cercò di convincersi; forse quell'indiano emette un fluido malvagio, come un incantatore di serpenti, per questo Dagmar ha così paura. Ma subito ricordò che lei gli aveva proibito di parlarle, e che l'indiano si era girato a guardarlo appena loro due avevano iniziato a comunicare. Marco non aveva fatto nessun richiamo a voce e l'indiano non poteva aver sentito il rumore dei suoi passi perché erano distanti l'uno dall'altro quasi quaranta metri. Era forse riuscito a intercettare il suo pensiero? Il pensiero di Dagmar o piuttosto quello di entrambi?
Per sua fortuna quel giorno gli vennero affidati incarichi per lavori tutti lontani dalla gabbia di Dagmar, così non gli toccò vederla; ma il mal di testa che gli era venuto alla mattina aumentò durante la giornata fino a diventare insopportabile sul tardi della sera, quando con estrema cautela rientrò nello Zoo dalla solita porta di servizio e scivolò silenziosamente nelle stalle.
"È un mago!"
Dagmar se ne stava acquattata nell'angolo più scuro e lontano della sua stalla e non gli fece effusioni quando Marco si accosciò accanto a lei. Fissava continuamente attraverso il cancello il corridoio male illuminato delle stalle come una bambina impaurita.
-Come ti sei accorta che è un mago? Le chiese, carezzandole la testa.
"Me lo ha detto lui stesso. Sente quello che penso, e mi impone di sentire quello che pensa lui, anche se io non voglio. Ha ascoltato tutto quel che ci siamo detti io e te, sa tutto dei nostri incontri clandestini e ha detto che potrebbe farti cacciare via"
-Lo farà? Chiese Marco ansiosamente.
Lei non gli rispose.
-Dagmar, lo farà?
"Ha detto di no"
-Cosa vuole in cambio da te?
"Ma niente...non so...non mi ha chiesto niente in cambio". D'improvviso era diventata riluttante.
-Stammi a sentire, Dagmar: quello è un uomo cattivo e tu non ne hai mai incontrati, non li conosci; io sì, purtroppo, e ti dico che quella gente vuole sempre qualcosa in cambio, non fa mai niente per niente.
"Non mi ha chiesto nulla. Stai tranquillo, amore mio, non mi ha chiesto proprio nulla"
-In che consiste questa sua magia?
"Non lo so. Lui mi ha detto che può fare miracoli, e che nessuno al mondo è bravo quanto lui. Mi ha detto che questa notte verrà e mi farà vedere di che cosa è capace"
-Questa notte? Allora mi nasconderò qui dentro e assisterò al suo spettacolo.
"Te ne dovrai andare invece. Lui sa e vede tutto; non farà niente se tu sarai nei pressi, anzi diventerà cattivissimo e farà del male a me e agli altri animali delle stalle"
-Te lo ha detto lui?
"Sì. Voleva che tu lo sapessi e che fossi io a dirtelo"
-E tu? Non vuoi che io resti?
"Questa volta no: voglio vedere che cosa farà il mago"
Marco non provò nemmeno a farle cambiare idea; si era da tempo reso conto di quanto Dagmar fosse cocciuta e ostinata e che era impossibile smuoverla quando si era fatta venire qualcosa in testa. Tornò a casa ma non chiuse occhio per tutta la notte.
Il mattino seguente, percorrendo i viali dello Zoo, Marco non vide traccia di Mister Kaleb. Nessuno dei colleghi lo aveva incontrato o visto e solo più tardi Maria gli disse che l'ingegnere indiano si era preso un giorno libero.
Era intanto esploso un violento temporale e pioveva a dirotto con tuoni e fulmini. I felini non erano stati fatti uscire nelle gabbie, ma lasciati chiusi nelle stanze delle vetrate. A quell'ora non c'erano visitatori nello Zoo e la galleria era deserta.
-Sentono il tempo cattivo anche loro, osservò Maria guardando le belve dietro i vetri.
Stavano tutte insolitamente acquattate pancia a terra lontano dai vetri, e sembravano in attesa di chissà quale evento; perfino il leone aveva drizzato la testa e se ne stava rannicchiato vicino al cancelletto, come se volesse infilare di gran carriera il corridoio che portava alla sua stalla.
Della pantera, incastrata tra muro e mangiatoia, spuntava fuori soltanto un pezzetto della coda.
-Hanno paura dei tuoni, disse Maria.
Marco aveva letto però negli occhi sbarrati di Dagmar una paura diversa, molto più intensa. Gli penetrò nei sensi un'ondata del terrore dell'animale prima che gliene arrivasse la voce:
"Non andartene via. Ti prego, ti prego resta qui vicino a me"
Se non avesse saputo che si trattava della voce di una tigre siberiana Marco avrebbe pensato che fosse quella di un bambino che stava piangendo.
-Rimango qui per lavare bene queste vetrate, disse a Maria sperando che lo lasciasse da solo.
-Se hai bisogno di me sono all'acquario, gli rispose la donna.
-Che cosa è successo stanotte? Chiese subito a Dagmar.
"Apri quella porta, entra dentro e vieni vicino a me"
-Non possiamo: è giorno adesso, potrebbe arrivare qualcuno da un momento all'altro. Dimmi cosa ha fatto il mago questa notte e perché avete tutti tanta paura.
Dagmar si avvicinò alla vetrata strisciando sul ventre.
"Ha minacciato di trasformarmi in una gallina", gli mormorò a voce bassissima.
-E tu gli credi?
"Certo che gli credo, perché lui può farlo"
-Sei matta? Tu sei una tigre siberiana di duecento chili. Hai mai visto quanto è piccola una gallina?
"E tu hai mai visto quanto è piccolo un topo? Questa notte il mago ha trasformato la pantera nera in un topo, lasciandole la coda lunga che le si impigliava da per tutto appena lei fuggiva perché non riusciva più a tenerla sotto controllo. Poi il mago l'ha afferrata per la coda, l'ha sollevata e tenendola a testa in giù ha minacciato di lasciarla cadere in mezzo ai pitoni che se la sarebbero pappata in un lampo. Vedi un po' adesso se ti riesce di farla venire fuori dal suo nascondiglio la povera pantera"
Marco guardò la tigre esterrefatto.
-Non riesco a crederci.
"Vai a guardare come sono terrorizzate le giraffe. Il mago ha trasformato il vecchio maschio in una rana: quel poveraccio gracidava impazzito dalla paura; spiccava salti altissimi ai quali non era abituato e ritornava a terra sempre a pancia all'aria. Deve sentirsi tutto a pezzi oggi"
Marco continuava a dubitare, ma la pantera non si fece vedere per tutto il giorno e non uscì dal suo nascondiglio nemmeno per mangiare.

-È questo che vuole da te in cambio del suo silenzio sulla nostra relazione, non è vero? Le chiese alla sera quando furono soli nella stalla. Vuole che tu ti presti per i suoi esperimenti.
"No. Vuole che io fugga insieme a lui" gli rispose Dagmar.
-Trasformata in gallina?
"In un uccellino, dentro una gabbietta, ha detto"
-E chi mette al tuo posto dentro la gabbia?
Dagmar non gli rispose.
-Prende un topo nel parco? Oppure afferra un passero mentre gli vola sulla testa?
"Non ci scherzare tanto sopra" lo interruppe Dagmar. "Lui mi ha detto che trasformerà te in una tigre"
Marco rimase senza fiato e deglutì un paio di volte prima di poter articolare una parola.
-Quel maledetto indiano è un mostro! Dovrò ammazzarlo, altrimenti ci distruggerà.
"Tu non farai proprio niente. Non dimenticare che lui è un mago e tu non hai alcun potere. Ci penserò io.
-Cosa vorresti fare tu, ucciderlo? Non potresti inghiottirlo come hai fatto con quell'uccellino, questo è troppo grosso e ne resterebbe comunque qualche traccia.
"Il delitto perfetto non esiste", citò Dagmar.
-Appunto. Verrebbe la polizia, poi verrebbe un veterinario e ti inietterebbe un veleno mortale. Moriresti, Dagmar.
"Ma perché?"
-Perché saresti una belva che ha ucciso un uomo. Dovresti essere eliminata: questo vuole la legge degli uomini, ma io non permetterò che tu muoia, Dagmar.
"Adesso cerca di calmarti e lascia fare a me: io ho un piano"
-Che piano?
"Meglio non rivelarti niente, ma io ho un'idea e sono convinta che funzionerà. Tu devi avere fiducia in me e andartene a casa subito, perché il mago stasera ritornerà"
-Viene per fare nuovi esperimenti? Per terrorizzarvi ancora un po'?
"Viene per avere la mia risposta"
Marco la guardò allibito.
-Succede tutto così in fretta, lui ha già deciso?
"Il suo lavoro è quasi finito, mi ha detto; fra pochi giorni se ne andrà via"
-Con un bel passerotto in una gabbietta e un povero disgraziato nella gabbia della tigre. Ha deciso così Mister Kaleb?
"Lui pensa che andrà così"
-Ma tu hai un piano.
"Io ho un piano"
-Mentre io non devo far niente, devo fidarmi di te,
"Sì, ciecamente"
-Vuoi dirmi perché?
"Perché io ti amo e non ti lascerò mai dentro una gabbia, e poi perché solamente io posso risolvere la situazione senza combinare danni irreparabili, tu invece ti metteresti in guai grossi"

Anche questa volta Marco dovette andarsene incazzatissimo e col sangue in tumulto. Passò tutta la notte seduto sul letto con la testa tra le mani, fradicio di sudore.
Il giorno dopo evitò ostinatamente di avvicinarsi alla gabbia di Dagmar. Intendeva punirla per avergli fatto passare una nottataccia, e soprattutto perché non gli aveva confidato le sue intenzioni lasciandolo all'oscuro su cose che riguardavano ormai il suo destino: se quel mago poteva fare quel che Dagmar gli aveva riferito non sarebbe certo stato allegro il suo futuro nel corpo di una tigre. La cosa più saggia sarebbe stata piantare tutto lì e fuggire lontanissimo col primo treno, ma non avrebbe mai abbandonato Dagmar nelle mani di quel lestofante in caffettano.
Se ne andava svolgendo il suo lavoro di malavoglia tormentato da pensieri angosciosi, quando gli arrivò alle orecchie fievole come un bisbiglio il richiamo di Dagmar.
"Vieni da me, Marco! Vieni subito. È importante quello che ho da dirti"
Si fermò con un rastrello in mano a una trentina di metri dalla gabbia. Non voleva dargliela del tutto vinta, non ancora.
"Cosa c'è di tanto importante?"
"Quando vieni questa sera porta con te un paio di pantaloni e una giacca"
"Per farne che?"
"Servono a me"
"A te?"
"Li indosserò quando il mago mi avrà trasformata in una donna"
"E io dovrei aiutarti a scappare con lui?"
"Non scapperò con lui, sciocco; verrò con te"
"Dagmar, che pasticcio hai combinato?"
"Ho fatto un patto con lui"
"Un'alleanza?"
"No, solamente un patto. Gli ho chiesto di trasformarmi in una donna per fare all'amore con te, prima di andare via insieme a lui"
"Kaleb ha acconsentito?"
"Ha acconsentito"
"Ma dopo di essere stata insieme a me dovrai andare via insieme a lui, vero? E io rimanere nella gabbia al tuo posto? È questo il patto?"
"Questo è quel che mi ha fatto giurare; ma scapperemo io e te e quando il mago se ne accorgerà noi due saremo lontani, al sicuro da lui"
"Tu credi che Kaleb non lo abbia capito?"
"Sono stata bravissima e convincente: non ho nemmeno per un istante pensato a cose diverse da quelle che gli dicevo. Non mi sono lasciata sfuggire nemmeno un pensierino piccolo piccolo. Mi dici come potrebbe aver capito?"
"Quello è più furbo di te e di me, non cadrà in un tranello tanto ingenuo"
"Allora scatterà la seconda parte del mio piano"
"E sarebbe?"
"Questo non te lo dico, ma sarà una sorpresa per te e per lui, vedrai, soprattutto per lui. Tu portami i vestiti stasera"
"Dagmar, io ho una gran paura"
"Andrà tutto bene, amore mio"

Marco passò l'intera giornata con la tremarella addosso. A pranzo toccò appena il cibo. Tornato a casa bevve un bicchiere d'acqua e si sdraiò vestito sul letto, guardando l'orologio ogni cinque minuti. Poco prima delle ventuno si fece la doccia perché era zuppo di sudore; indossò jeans e un maglione a girocollo, prese dall'armadio un paio di pantaloni semi nuovi, una camicia e una giacca. Mise tutto in una busta di plastica che gettò su uno dei sedili posteriori della sua auto, e partì. Trovò un parcheggio libero vicino al suo ingresso preferito; introdusse il suo cartoncino plastificato nell'apposita fessura del portoncino ed entrò. Arrivò in un baleno alle stalle, ne percorse tutto il corridoio principale e introdusse il suo cartoncino giallo nella fessura luminosa del cancello di Dagmar.
Lei era al centro della stalla, immobile.
-Buonasera.
Mister Kaleb emerse da un angolo buio.
-Come ha fatto a entrare qui dentro? Gli chiese Marco, ma istintivamente guardò il cartoncino magnetico che aveva ancora in mano e gli fu tutto chiaro prima che l'indiano rispondesse.
-Il mio non apre soltanto un reparto, bensì tutti, caro amico: apre tutte le porte e le richiude tutte.
Un chiaro avvertimento, pensò Marco ma subito si morse un labbro: non doveva pensare a niente in presenza di quell'uomo che intendeva anche il pensiero. Guardò un attimo Dagmar e gli sembrò minuta, quell'enorme animale gli sembrò fragile: teneva gli occhi fissi sul mago e Marco sentì dentro di sé vibrare i battiti veloci del cuore della tigre. Dagmar aveva paura, una paura folle, ma era pronta a sfidare il mago.
-Brava! Così si comporta una vera tigre nella giungla, disse Kaleb.
Aveva capito tutto, naturalmente.
-Più la tigre ha paura, aggiunse, e più è pronta a battersi; più è in preda al terrore e più la tigre è pericolosa, come te in questo momento, vero Dagmar?
Si avvicinò alla tigre. Marco vide un guizzo negli occhi gialli.
-Vorresti uccidermi, non è così? Sibilò Kaleb. Ma non lo farai, altrimenti non conoscerai mai l'ebbrezza di stringere tra le tue braccia il tuo amore. No, tu non lo farai. Avete tutta la notte per voi, poi tornerete qui, concluse il mago rivolgendosi a Marco. Io vi aspetterò qui dentro.
Kaleb si avvicinò a Dagmar e le sfiorò la testa con le mani protese. Dagmar si allontanò velocemente da lui rannicchiandosi in un angolo: tremava in tutto il corpo emettendo un rantolo sordo, sembrava preda di forti dolori. Durò poco, poi si distese immobile, come spossata. Nelle semioscurità dell'angolo dove si era rifugiata sembrò a Marco che qualcosa si muovesse, più piccola di una tigre. Quando quel qualcosa si eresse e venne verso il centro meglio illuminato della stalla Marco a bocca spalancata vide che era una giovane donna, nuda e bellissima, bella come mai ne aveva viste. La tigre era scomparsa e Dagmar era lì davanti a lui in carne e ossa.
-Ti piace? Gli chiese Kaleb, e rise. Da una stupenda tigre una stupenda femmina.
Marco le pose la borsa e Dagmar incominciò a vestirsi, con un certo impaccio.
-Questa magia non è eterna, dura solamente sei ore, disse Kaleb; dopo ritornerai a essere una tigre, dovunque tu ti trovassi, ed esplose in una fragorosa risata.
-Ritorneremo entro le sei ore, gli rispose Marco aprendo il cancello.
-Ci ha fregato, Dagmar, le disse quando furono in macchina.
-È convinto di averci fregato, rispose lei; ma adesso voglio pensare solamente a noi due, a lui penserò dopo.

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